di Pietro Monsurrò
ROMA (Public Policy) – La Commissione Ue ha pubblicato un rapporto dell’“High Level Expert Group” (HLEG) sulla disinformazione e su come combatterla. È considerata disinformazione la diffusione di informazioni false, inaccurate o tendenziose che hanno lo scopo di influenzare negativamente il pubblico o fare profitti. Ciò include, ma non si limita, alle cosiddette “fake news”.
I membri dell’HLEG hanno approvato il rapporto quasi all’unanimità: “Reporters sans Frontières” ha votato a favore, lamentandosi però che ogni forma di coordinazione della risposta alla disinformazione è potenzialmente pericolosa per la libertà di espressione, se non se ne specificano i dettagli istituzionali; la “European Consumer Organization” (BEUC) ha invece votato contro per via dell’esclusione del click-baiting dalla definizione di “disinformazione”.
Del resto anche il click-baiting è una forma di disinformazione, e ogni giorno si leggono titoli di giornali che non hanno nulla a che fare col contenuto, ben sapendo che la maggioranza delle persone leggerà, e ricorderà, solo il titolo. I principi del rapporto sono condivisibili: la lotta alla disinformazione serve, ma combatterla rischia di ridurre la ben più importante libertà di espressione. Ciò è messo nero su bianco nel rapporto, focalizzato su interventi combatibili con la libertà di espressione, come una maggiore trasparenza dei media (soprattutto sui finanziamenti) e sull’alfabetizzazione mediatica.
Altri interventi proposti sono più pericolosi: qualunque forma di validazione delle informazioni da parte di terzi rischia di rivelarsi censura. Passare dalla concorrenza al monopolio è sempre pericoloso, perché si crea un potere capace di manipolare l’informazione. Il lavoro svolto dall’HLEG è interessante, ma sembra scritto da tecnici informatici e ingegneri gestionali: si parla di insegnare ai giornalisti come usare i new media, di “database”, di “API”, di “digital single market”.
Visto l’approccio puramente tecnico, due domande fondamentali sono state dimenticate: perché una cospicua parte della popolazione ha perso la fiducia nell’establishment politico e mediatico, e perché sembra esserci un’epidemia di creduloneria in parte della popolazione, che ha reagito alla perdita di fiducia nelle “èlite” con un ancora più infondato fideismo “contrarian”, dall’antivaccinismo al putinismo.
Come spesso accade nelle pubblicazioni della Commissione Ue, la necessità di un intervento Ue è data per scontata, e le limitazioni di sovranità della Ue, quando le competenze sono nazionali, sono viste come lesa maestà. Eppure nel rapporto non è chiaro quale sia il valore aggiunto dell’Ue nella lotta alla disinformazione: ogni Stato può se lo ritiene necessario adottare le politiche suggerite, e la Ue dovrebbe solo vigilare che le regole nazionali non siano di ostacolo alla concorrenza di altri Paesi Ue.
Dare per scontati trasferimenti di sovranità in centri di potere lontanissimi dal cittadino, poco conosciuti e difficilmente raggiungibili, non aiuta a recuperare la sua fiducia.
La crisi di fiducia ha molte origini. Un potere anonimo e senza radici storiche, come quello dell’Ue, che cerca di influenzare in dettaglio la vita dei cittadini, ha un intrinseco problema di legittimità politica, e questo non può che aumentare i contrasti politici, come minimo creando un facile capro espiatorio (come ben sappiamo in Italia, dove la classe politica non sa fare altro che produrre scuse per la propria inadeguatezza). Ma la crisi di fiducia esiste anche a livello nazionale, come testimoniato dalla crisi dei partiti di establishment in molti Paesi europei. La crisi economica prodotta dall’euro, di cui ancora si soffrono le conseguenze, non ha aiutato, come anche l’immigrazione, in alcuni casi non produttiva e quindi non vantaggiosa neanche economicamente.
L’ideologia “cosmopolita”, diffusa tra le élite, secondo cui le classi dirigenti non devono nulla ai cittadini ma devono considerare l'”umanità” in astratto, e secondo cui quindi la cittadinanza è una formalità senza valore, di certo non aiuta a recuperare un rapporto costruttivo.
Il successo della disinformazione è un problema che nasce dalla mancanza di fiducia nell’establishment, sfiducia entro certi limiti meritata. Non sembrando possibile non credere in nulla e in nessuno, questa mancanza di fiducia ha provocato in molti un desiderio di credere a qualunque cosa, e ciò rende naturalmente fragili i media alla manipolazione.
Se non si risponde a questo problema, parlare di API, database e corsi di formazione non servirà a nulla. (Public Policy)
@pietrom79