Lo Spillo

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ROMA (Public Policy) – di Enrico Cisnetto – Le ore del giudizio. Quando il Parlamento avrà terminato l’iter di conversione del decreto legge che obbliga le banche popolari con attivi maggiori a 8 miliardi a trasformarsi in Spa sapremo se una somma di errori produrrà, almeno una volta, un buon risultato, o se, come sempre, questioni fondamentali saranno subordinate ai soliti interessi di consenso politico e agli estremismi di interessi conservatori.

La battaglia che sta per scatenarsi in commissione alla Camera (riunite Finanze e Attività Produttive) dove è in discussione il provvedimento, è frutto di due errori speculari. Da una parte, è responsabilità del mondo delle popolari aver eluso una riforma attesa da decenni, che avrebbe potuto tranquillamente essere un’autoriforma. Dall’altra, il governo che, senza sentire nessuno, ha usato lo strumento del decreto legge, presupponendo requisiti di “necessità e urgenza” che con tutta evidenza non sussistono. Ora, se questo “colpo di reni” di Palazzo Chigi avrà spezzato il colpevole immobilismo degli istituti di credito cooperativo, sarà stato un bene.

Ma se il governo andrà avanti, sordo – come pare sia il consigliere di Renzi sulla materia, Andrea Guerra – alle osservazioni e ai suggerimenti di quella parte delle popolari che non rifiuta a priori la riforma e cerca un positivo compromesso, le conseguenze saranno nefaste. Prima di tutto si otterrà l’effetto di riunificare l’intero mondo del credito cooperativo sulle posizioni più intransigenti. Poi si esporrà il governo alle accuse di aver favorito amici (Davide Serra, che ha guadagnato in Borsa) e ministri (Boschi, per la Popolare dell’Etruria) più di quanto non sia già avvenuto.

Ma, soprattutto, ci sarà il rischio che il provvedimento finisca sotto la scure dei tribunali e della Consulta, con il pericolo che, dopo tanta fretta e tanto clamore, si torni al punto di partenza. Senza contare che nel testo ci sono aspetti poco chiari, su cui un confronto con gli operatori del settore sarebbe utile. Anche perché le popolari, che proprio in questi anni di crisi hanno erogato più credito a cittadini e imprese rispetto alle altre banche, diventerebbero scalabili da chi ha soldi e solidità per acquistarle, e cioè – ahinoi – soggetti esteri. Renzi, per legittimare la sua “nuova stagione” ripete sempre che “si parla, si discute, ma poi il governo decide”.

Bene, ma in questo caso di confronto non sembra esserci nemmeno l’ombra. Eppure, con alcune modifiche, pur mantenendo l’impianto della riforma – abolizione del voto capitario e limite dell’1% alle quote detenute – si eviterebbero danni irrecuperabili e si garantirebbe il buon esito dell’iniziativa. Introdurre un tetto al diritto di voto al 3/5% del capitale sociale fissa ineludibili misure antiscalata e antispeculazione. Per tutelare gli azionisti “granulari” e le loro funzioni di controllo e monitoraggio e per aprire la governance a minoranze che normalmente non vi concorrerebbero, poi, sarebbe sufficiente sterilizzare il diritto di voto in assemblea oltre una certa soglia (la migliore è un limite massimo a 10 mila azioni).

Inoltre, è ragionevole allungare da 18 a 24 mesi l’arco temporale previsto per la trasformazione in Spa, per evitare che la mutazione avvenga a cavallo tra due esercizi. Se davvero il governo è scattato ed ha agito d’imperio su questa riforma perché consapevole dell’importanza delle banche popolari per l’economia del Paese, adesso non può ignorare che ormai il primo e più importante passo è stato fatto, come non può non sapere che è nei dettagli che si annidano le catastrofi. (Public Policy)

@ecisnetto