POLITICA E CRISI, DELL’ARINGA (PD): BERSANI HA UNA CULTURA INDUSTRIALE

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RAPPORTO SUL MERCATO DEL LAVORO

(Public Policy) – Roma, 17 gen – (di Leopoldo Papi) I dati
diffusi dall’Istat parlano chiaro: la produzione industriale
nel 2012 ha subito un crollo del 7,6%, proseguendo una
tendenza già avviata negli anni della crisi. Il tessuto
produttivo soffre sul territorio, e questo, spiega Carlo
Dell’Aringa, direttore del Centro di ricerche sui problemi
del lavoro e dell’industria (C.r.e.l.i.) dell’Università
Cattolica di Milano, è uno dei motivi che l’ha spinto a
rispondere all’appello di Pier Luigi Bersani, che l’ha messo
nel suo “listino”.
Dell’Aringa è anche candidato capolista Pd in Lombardia 2
per la Camera. “Bersani – spiega – viene da una cultura
della politica industriale, che ha praticato direttamente
come ministro. E viene da una regione, l’Emilia Romagna, in
cui il settore pubblico è presente a supporto del tessuto
economico”.

D. QUALI SONO LE CAUSE DELLA CRISI INDUSTRIALE, E COME SI
RISOLVONO?
R. In larga misura risiedono in una crisi internazionale,
che colpisce tutti, e poi nel fatto che sono state messe in
atto politiche fiscali tendenti, da un lato, a riequilibrare
i conti pubblici e ridurre il deficit, ma che dall’altro
hanno prodotto effetti recessivi sull’economia. Si può
discutere quanto la crisi industriale sia dovuta all’una o
all’altra causa, ma certamente entrambe sono state
importanti. È chiaro che la crisi si può risolvere solo
rimuovendole.

D. E QUALI MISURE PROPONE?
R. Dobbiamo fare qualcosa per rendere il sistema economico
più competitivo, dopo la perdita di competitività negli
ultimi dieci anni. Ma la competitività è una bestia strana
che dipende da tanti fattori, su cui si può lavorare con
buone politiche, ma non certo in tempi brevi.

D’altronde non possiamo risolvere da soli problemi come
quello del nostro debito pubblico, che ci costringono a fare
una politica di forte contenimento della domanda aggregata.
Subiamo le conseguenze di decisioni prese a livello europeo,
di estremo rigore. Ma non c’è dubbio che se si confronta
l’area monetaria europea con le altre grandi aree analoghe
nel mondo, il rapporto debito pubblico europeo e Pil non
raggiunge il 100%, mentre altre aree, come gli Usa o il
Giappone hanno debiti pubblici in percentuale più elevati.
Eppure stanno facendo politiche molto meno recessive, se non
quasi espansive.

Penso che questa sia un’anomalia: c’è un area monetaria che
fa molto più rigore delle altre, soffre anche
indirettamente, perché sappiamo che una politica di rigore
porta a un apprezzamento della moneta, e si penalizza la
componente della domanda aggregata legata all’export.

Quest’anomalia va rimossa, il che non significa
denunciare il fiscal compact, ma assumere decisioni che a
livello europeo vadano più nella direzione degli
investimenti: ricerca, innovazione, infrastrutture, e
qualche allentamento dei vincoli di bilancio, nel senso di
raggiungere equilibri in tempi meno stretti.

D. L’ABBASSAMENTO DELLA PRESSIONE SUL DEBITO (LO SPREAD)
NON PUÒ INCENTIVARE IL RITORNO A POLITICHE DI SQUILIBRIO?
R. Certamente negli scorsi 10 anni non abbiamo saputo
risolvere molti nostri problemi, un arretrato che
indubbiamente ora pesa. Non vedo tuttavia un rischio di
ritorno agli antichi vizi o perlomeno non dovrebbe essere la
politica nostra da seguire. Un tentativo di tornare a far
politiche allegre, verrebbe smentito il giorno dopo dai
mercati, dalla comunità europea e dalla Bce.

Ma i nostri problemi non hanno solo cause interne, dovremo comunque
puntare molto, in modo autorevole, su un’accelerazione
dell’unità politica, economica, bancaria, con la conseguente
cessione di sovranità.

D. QUALI SETTORI È PIÙ URGENTE RILANCIARE?
R. Tutti, perché io credo che la competitività è di Paese.
È chiaro che in trincea c’è l’industria. Ma bisogna
rilanciare anche altri settori produttivi, se non altro per
un aspetto: quei comparti che negli scorsi anni hanno
prodotto posti di lavoro (anche due o tre milioni) a chi li
hanno dati? Agli immigrati.

Non dico che bisogna chiudere le
frontiere, perché non servirebbe a niente. Però il rischio è
che si continui a produrre posti di lavoro nei servizi alle
persone, alle imprese, turismo e commercio, che la forza
lavoro italiana non gradisce. È un mismatch terrificante.

Da un lato, non c’è dubbio, bisogna migliorare la preparazione
tecnico professionale dei giovani – basta con le lauree in
comunicazione – orientare le famiglie, formazione, ma
dall’altra parte si deve aumentare la produttività e qualità
dei lavori. Quindi competitività ma anche far incontrare
domanda e offerta di lavoro nel Paese.

Non basta che funzionino bene gli uffici di collocamento,
si deve puntare su settori produttivi con posti di lavoro
che vanno bene anche per le donne e i giovani italiani.

D. CHE RESPONSABILITÀ HANNO LE BANCHE NELLA CRISI?
R. Se guardiamo ai bilanci delle banche non è che stiano
cumulando grandi profitti, o abbiano acquisito rendite in
questi anni. Possiamo dire che i manager bancari prendono
troppo, certo. Si può parlare anche di operazioni
avventurosissime. Le banche hanno certamente bisogno di
ristrutturarsi: di capacità professionale in più per
discriminare meglio.

Detto questo la crisi preme anche su di
loro, e seguono un po’ il destino del Paese. Ricordiamo che
stanno aumentando moltissimo le sofferenze. Non getterei la
croce su un settore che soffre moltissimo, non vedo una
predeterminata azione di strozzinaggio.

D. SULLE GRANDI QUESTIONI INDUSTRIALI, COME QUELLE
DELL’ALCOA, COSA PENSA? DIFESA DEI LAVORATORI O DEI POSTI DI
LAVORO?
R. In questi casi c’è un misto di due cose: una cultura
della difesa del posto del lavoro come diritto invece della
difesa del lavoratore. Ma le protezioni al lavoratore, e le
politiche attive (uffici di collocamento, formazione,
orentamento professionale) non bastano: la politica del
lavoro deve essere accompagnata dalla politica industriale.

Quando chiude un’azienda di 4 mila persone non ci sono
alternative immediate: questi strumenti devono essere
continuamente in attività. Lo Stato, oltre alla politica del
lavoro attivo, deve creare un ambiente favorevole ai settori
produttivi, volto ad attirare investimenti e iniziative, e
capace di mettere assieme banche, Camere di commercio,
università, enti locali, parti sociali.

Non significa che il
pubblico si sostituisce al privato, ma che è continuamente
impegnato per far sì che ci siano strumenti per creare un
ambiente favorevole allo sviluppo. (Public Policy)

LEP