Twist d’Aula

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di Massimo Pittarello

ROMA (Public Policy) – Ritorno al parlamentarismo spinto. Anzi, spintissimo. Di 46 presidenti del Consiglio dei ministri della storia repubblicana, nessuno è stato eletto dal popolo. E nemmeno dal Parlamento, che vota la fiducia al Governo già in carica, dopo il giuramento. Perché l’Esecutivo nasce su nomina del presidente della Repubblica.

Però, anche se non è mai esistito un “premier eletto dal popolo”, come mi ripete sempre un deputato renziano, dal 1994 gli elettori votano un nome sulla scheda. E vogliono che a Palazzo Chigi vada proprio quello e nessun altro. Se cade, vogliono tornare alle urne. Certo, si trattava di un artifizio elettorale senza corrispondente aggiornamento della Costituzione, ma che era ormai consolidata consuetudine.

La riforma bocciata dal referendum, al di là se bene o male, cercava di formalizzare questa metamorfosi maggioritaria: accountability, cioè identificazione e accertamento delle responsabilità politiche di chi governa.  Ora, invece, è probabile un ritorno al proporzionale. E Gentiloni è stato chiaro: “Il Governo dura finché ha fiducia” e quindi per cadere deve cadere in Parlamento.

Quindi, il destino di Esecutivo e legislatura si decide solo ed esclusivamente con la conta dei numeri in aula, sugli accordi tra i banchi, sugli equilibri tra i gruppi. Puro assemblearismo d’antan.

E al Senato, dove le maggioranze sono sempre più sottili, Gentiloni ha ottenuto 169 voti di fiducia. Più o meno gli stessi di Renzi, nonostante nessun partito di opposizione si fosse reso disponibile a sostenere il nuovo Governo e nonostante la defezione di Ala, che mercanteggia il voto di 18 senatori in cambio della vicepresidenza del Senato, alcuni sottosegretari e fa traballare la maggioranza in quattro commissioni.

Questo Governo non nasce con grandi ambizioni riformatrici, ma per rispondere a esigenze indifferibili a livello internazionale e sulla legge elettorale. Qualcuno dice per galleggiare. Ma, nonostante questo, Gentiloni parte da una base non meno ampia di quella di Renzi, grazie a Misto, Gal, senatori a vita e ministri e nonostante l’intemperanza di Verdini.

Sarà per l’evocazione di “adempimenti, impegni, scadenze” da rispettare, sarà per un improvviso e folgorante senso di responsabilità, sarà perché i parlamentari maturano l’indennità aggiuntiva (la pensione, per capirci) da settembre 2017, sarà perché il voto fa paura a molti – anzi “non il voto, ma perdere”, come dice Cuperlo – ma, comunque, al Senato il consenso al Governo è già alto.

Insomma, sembra essere tornati al parlamentarismo più estremo. Roberto Speranza, dopo aver votato le riforme alla Camera, nell’aprile del 2016, disse che “la bocciatura, dopo 30 anni di tentativi, avrebbe scavato un solco ancora più profondo tra l’opinione pubblica e le istituzioni”.

Poi ha cambiato idea e fatto campagna per il No al referendum. E ha vinto. Difficile dire se Speranza avesse ragione, ma certo il rischio sembra palpabile. Per adesso, con questo nuovo Governo tutto parlamentare, Grillo e Salvini già invocano la protesta in piazza e parlando di 20 milioni di voti traditi.

Con l’allontanarsi del voto, o anche con altri Governi di compromesso, larghe coalizioni e accordi post elettorali, sembra proprio il “solco” identificato da Speranza stia allargandosi. Speriamo ci salvi il 46° premier non eletto dal popolo. (Public Policy)

@GingerRosh