Twist d’Aula
Bum. Gli scherzi dell’inconscio

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di Massimo Pittarello

ROMA (Public Policy) – Il direttore mi perdonerà, ma devo confessare. Ho fatto un sogno che alla fine si è trasformato in incubo. La data era stata fissata e le liste per le elezioni politiche erano state presentate. Ovviamente, Renzi aveva vinto le primarie e presentando la sua candidatura a premier spiazzava tutti.

“Ho sbagliato – esordiva aizzando l’attenzione della platea – tagliare le tasse sulla casa è stato un errore, come anche gli incentivi a pioggia tipo 80 e 500 euro ai diciottenni”. Tutti che saltavano sulla sedia: “Avremmo dovuto impostare una strategia di più ampio respiro dal lato dell’offerta – proseguiva – o tagli strutturali al cuneo fiscale. Invece, abbiamo speso la flessibilità sul deficit concessa dall’Europa in ricerca del consenso”. Bum. Gli scherzi dell’inconscio.

Dopo l’approvazione parlamentare della riforma Boschi mi sarei dovuto dimettere, evitando un referendum sul governo”. Continuava parlando con tono sincero. Gli credevo. “Approvare l’Italicum con la fiducia prima 4 dicembre, poi, è stato il più esiziale degli errori”, sottolineava Renzi, senza tralasciare nulla. “Sono stato poco inclusivo, troppo decisionista e ogni tanto superficiale – concludeva – ma ora riparto per vincere, per cambiare davvero questo Paese”. A quel punto può darsi che io abbia avuto un corto circuito neurale, perché volevo votare per lui.

Ma le sinapsi sono imprevedibili. E così d’un tratto mi trovavo ad un raduno a 5 stelle. Nessuno parlava di boicottaggio dei vaccini, di scie chimiche, di microchip sottopelle, di complotti pluto-giudaci-massonici. Perfino il referendum sull’euro era divento off-topic. “Costituzionalmente vietato”, mi spiegavano Morra e Fico, che dal sostegno all’oltranzismo avevano messo la loro preparazione e la loro brillantezza al servizio di un ‘grillismo’ di governo. E, diamine, mi piacevano. Parlavano con Pedicini, Giulia Grillo, Girotto, Fraccaro, Cecconi e qualche altro pentastellato di quelli seri. C’era anche Pizzarotti. E Nogarin, che con il suo staff di tecnici e avvocati aveva già preparato la riforma della pubblica amministrazione. Che Madia però, stavolta, non poteva copiare.

Di Maio, intanto, accompagnava Appendino da Raggi. Lo scopo? Spiegare alla sindaca che l’errore non è il dialogo, né prendere decisioni o rispondere ai giornalisti, ma riciclare il personale delle vecchie e fallimentari giunte. Il tema dell’incontro ortottero era: “non il deficit, ma il debito”. In pratica, si parlava di un piano per conferire il patrimonio immobiliare pubblico ad una società da quotare in Borsa che emettesse bond il cui ricavato venisse usato per tagliare il debito pubblico sotto il 100% del pil. A quel punto, dicevano i grillini, sarebbe stato giusto sforare il tetto del 3% per finanziare copiosamente politiche anticicliche. E pensavo che fosse proprio un bel piano, anche se forse non nuovo.

Mi sembrava che nella folla non ci fossero giudici o magistrati. Nessun Davigo o Ingroia. Manager, professionisti e professori, quelli c’erano. Tanto che d’improvviso ho capito di essere a un raduno della sinistra. E poteva essere solo un sogno, perché avevano smesso di scindere l’atomo e litigare tra loro. Addirittura, quelli di Mdp, Possibile, Rifondazione, Alternativa libera, Sinistra italiana, avevano tutti insieme nominato Pisapia come front-man e messo al bando anacronistici sostegni ai cassaintegrati, sindacalismi al ribasso, buffe narrazioni di decrescita. Invece, annunciavano un programma basato su flexsecurity, reintroduzione dei voucher e sostengo alle politiche attive del lavoro. Nessuno era nostalgico dell’articolo 18, nessuno fantasticava sul governo delle procure, ma si puntava sulla mobilità dei giovani, sulla step-child adoption, sull’eutanasia. E gli under 35 non erano considerati un fastidio, un problema, ma una risorsa. Mi sentivo quasi di farne parte.

Quando poi sentivo la voce di Berlusconi. “Mi consenta”, diceva da casa sua, da Arcore. Ma non si (ri)candidava. E mangiava un agnellino. Senza investitura, ma come vincitore delle primarie, aveva lasciato spazio a Stefano Parisi. Che non inseguiva il populismo, ma aveva radunato le associazioni di categoria, le rappresentanze imprenditoriali, tutte le forze economiche sotto poche e semplici idee liberali: Stati Uniti d’Europa, ‘scaricare tutto tutti”, licenziamento per dipendenti pubblici, il merito, l’abolizione delle Regioni a statuto speciale.

Ne ero affascinato, ammaliato, quando ho pensato che dovevo guardare al Nord per capire se fosse vero. E non c’era Salvini, ma c’erano Zaia, Maroni e Tosi che avevano creato una forza nazionale, abbandonato iperboli federaliste e lavoravano ad un programma coniugabile con quello di Parisi. La Lega (ora Lega Italia) l’aveva scritto nero su bianco: il problema non è la secessione, ma l’eccessiva spesa pubblica.

E anche le irragionevoli e inefficienti spese degli enti locali. E volevano abolire le Regioni e riorganizzare le Province. E chiedevano rispetto per gli immigrati, consapevoli che, numeri alla mano, sono indispensabili per la nostra economia. Le ruspe erano state messe al bando. E Calderoli aveva smesso di atteggiarsi con t-shirt e fuochi (fatui) di leggi e si comportava da vero uomo di parlamento quale effettivamente è, guidando un team di quelli duri e seri, tra cui Rizzetto, Brunetta e anche Meloni, che però condannava il fascismo durante una visita alla sinagoga.

Poi ho realizzato che alla Camera era rimasto sia lo sbarramento al 3% che i capilista bloccati. E ho capito che stavo solo sognando. Mi sono svegliato e ho visto la realtà. E mi è sembrata un incubo. Ma questo non c’è bisogno di condividerlo. (Public Policy)

@GingerRosh