di Carmelo Palma
ROMA (Public Policy) – In genere non c’è proposta di riforma istituzionale in Italia – che riguardi le leggi elettorali, la Carta costituzionale o il funzionamento dello Stato – che non abbia in primo luogo una finalità politica dimostrativa e che non sia un patchwork di norme e dispositivi pescati, più o meno alla rinfusa, da altri ordinamenti, peraltro molto diversi tra di loro e adattati a forza a quello italiano.
Anche la proposta semipresidenzialista presentata da Fratelli d’Italia e stoppata dal voto della Camera assommava entrambi i difetti. Era un manifesto politico, che serviva essenzialmente per dire, più che per fare qualcosa ed era un ibrido normativo utile non tanto a migliorare il funzionamento e la legittimazione delle istituzioni di governo, quanto a soddisfare le retoriche prevalenti in un centrodestra “populistizzato”, che tende a considerare le Camere uno specchio distorcente e una struttura parassitaria dell’autentica volontà popolare e quindi allude costantemente all’esigenza di renderne più diretta l’espressione. Dal punto di vista ideologico, il presidenzialismo di Meloni è qualcosa di più simile al mito dell’autogoverno digitale del primo M5s, che al progetto della V Repubblica francese.
Nel contesto italiano è dunque sempre molto difficile discutere del merito di una riforma smisuratamente ambiziosa nei fini, senza discutere anche dell’uso politico che ne fa chi la propone come una soluzione a tutti i mali. Nel caso della proposta di FdI questo è ancora più vero, perché la discussione nella fase terminale della legislatura è subito sembrata avere fini più esterni che interni al Parlamento: la verifica dell’unità del centrodestra attorno a parole d’ordine condivise e il riconoscimento della leadership di Giorgia Meloni.
Veniamo comunque al merito, facendo chiarezza di un equivoco ricorrente. Fratelli d’Italia non ha proposto un sistema presidenziale alla statunitense, né un sistema semi-presidenziale alla francese, ma una sorta di ircocervo franco-statunitense con un dispositivo di protezione tedesco.
Il capo dello Stato è eletto come in Francia direttamente, con un sistema a doppio turno, se nel primo turno il più votato non ha raccolto la maggioranza dei voti espressi, e come in Francia nomina il primo ministro e presiede il Consiglio dei ministri. La differenza con la Francia emerge però proprio nel bilanciamento dei poteri tra presidente e primo ministro, che in Francia “dirige l’azione del Governo”, il quale a sua volta “determina e dirige la politica nazionale” (articoli 20-21 della Costituzione francese). Nella proposta di FdI il presidente della Repubblica invece è un vero capo di governo, come negli Usa e spetta a lui dirigere la politica generale dell’Esecutivo.
Occorre dire che, per la verità, la proposta di Fratelli d’Italia mette nero su bianco quello che la Costituzione francese non prevede, ma che nella prassi istituzionale in Francia è quasi sempre accaduto, fuorché nei rari casi di coabitazione di un presidente e di un primo ministro di partiti e schieramenti diversi. In Francia di fatto il presidente è il capo del governo e il primo ministro una sua controfgura. Si è spesso discusso, l’ultima volta nel 2008, durante la presidenza Sarkozy, se adeguare la Costituzione scritta a quella reale, ma si è sempre ritenuto che fosse sbagliato e imprudente farlo, costituzionalizzando un equilibrio che è legato piuttosto al funzionamento del sistema politico. E ne abbiamo conferma proprio oggi. Il rischio dell’elezione di Marine Le Pen ha mostrato la fragilità del sistema francese quando a confrontarsi non sono due rappresentanti di “partiti di sistema”. A determinare il funzionamento o le disfunzioni e i rischi del sistema francese è l’assenza o la presenza di questo presupposto politico, sempre più fragile in Francia e inesistente in Italia.
Ma Meloni non si è limitata a importare questo sistema, ma l’ha ulteriormente estremizzato. Per giungere alla radicale deparlamentarizzazione della legittimazione dell’esecutivo, che è caratteristica del sistema americano, la proposta della Meloni modifica sostanzialmente anche i termini del rapporto fiduciario tra governo e parlamento previsto dalla Costituzione francese, che all’art. 49 prevede la fiducia al Governo, anche se nella prassi questa è diventata opzionale e si intende implicitamente accordata a un Esecutivo che non sia stato espressamente sfiduciato dall’Assemblea nazionale. Questo meccanismo rende possibile in Francia i governi di minoranza, ma non rende possibile la permanenza in carica di governi sfiduciati. Detto in altri termini: il Governo può non chiedere la fiducia al Parlamento, ma il Parlamento può sempre votare la sfiducia al Governo (cosa che però è avvenuta una sola volta, nel 1962).
Su questo punto, per rendere ancora più incontrastato il potere presidenziale, la proposta di Fratelli d’Italia ricorre a un dispositivo tedesco, quello della sfiducia costruttiva. Il Parlamento non potrebbe sfiduciare il Governo, se non indicando anche un nuovo primo ministro. Se però in quello tedesco, che è un sistema parlamentare, la sfiducia costruttiva serve a rafforzare il ruolo del capo del Governo, all’interno di un sistema presidenziale, in cui il presidente è anche capo del Governo e ha una legittimazione diretta e diversa da quella del Parlamento, il meccanismo della sfiducia costruttiva può avere un solo fine e un solo effetto: la totale neutralizzazione del ruolo delle Camere e la subordinazione della legittimazione del Parlamento a quella del presidente, cosa che non avviene in forma così assoluta neppure in Francia. A ciò si aggiunge anche che sia il meccanismo semipresidenziale, sia la sfiducia costruttiva sono praticamente incompatibili con il sistema bicamerale, che la proposta di Fratelli di Italia lascia invece inalterato.
Nella storia della Seconda Repubblica, in particolare da destra, si è sistematicamente censurata la prassi di ricorrere a Governi cosiddetti “del presidente”, cioè Esecutivi forti di una legittimazione quirinalizia in un quadro politico paralizzato o collassato (Dini, Monti, Draghi). Ma questi Esecutivi si sono costituiti sempre grazie alla fiducia delle Camere.
Nella proposta Meloni il presidente potrebbe farsi i propri Governi, di fatto non sfiduciabili in un contesto di alta frammentazione politica, a prescindere dall’esito delle elezioni per Camera e Senato e anche contro il volere della maggioranza dei parlamentari. E potrebbe farlo in un sistema che, a differenza di quello Usa, non separa affatto rigidamente il potere esecutivo da quello legislativo e quindi il Governo dal Parlamento, che negli Stati Uniti non può in ogni caso essere sciolto (come accade in Francia e come vorrebbe Meloni per l’Italia) se non supporta l’azione del presidente eletto.
Il sistema presidenziale, che in Occidente ha funzionamento egregiamente in un quadro politico stabile, dominato da forze mainstream, è entrato in crisi ed è diventato un fattore di rischio democratico – si pensi al caso Trump – quando sono diventate prevalenti le spinte e le forze anti-sistema, anche all’interno di partiti tradizionali. Un presidenzialismo che veda confrontarsi forze diversamente populiste e sovraniste, che condividono l’ossessione per la disintermediazione del consenso politico, tende verso derive ideologicamente antiparlamentari o tout court anti-democratiche. Il testo della proposta di Fratelli d’Italia fotografa questa tendenza anche dal punto di vista normativo: il presidenzialismo sub specie populista.
In ogni caso, dal punto di vista pratico questa iniziativa era destinata, fin dall’inizio, a rimanere un esercizio di réclame parlamentare, perché il centrodestra, da solo, non avrebbe comunque avuto i voti per approvarla e perché le stesse caratteristiche della proposta oggettivamente impedivano un allargamento del consenso ad altri partiti e a quell’enorme, ma assai poco gestibile, massa di manovra rappresentata dai parlamentari via via confluiti all’interno dei gruppi misti di Camera e Senato.
L’emendamento soppressivo che ha affossato la legge, presentato dal M5s, è stato approvato con 236 voti favorevoli e 204 contrari. Poiché erano assenti, ma non in missione, 16 parlamentari di FI e 26 della Lega, si è sostenuto che l’affossamento sia dipeso da queste defezioni. Questa conclusione non tiene però conto del fatto che erano assenti anche 8 parlamentari del Pd e 18 del M5s con i quali l’emendamento soppressivo sarebbe comunque passato, anche se il centrodestra fosse stato a ranghi compatti. D’altra parte il centrodestra può contare complessivamente a Montecitorio su 276 voti (133 Lega, 81 Forza Italia, 37 Fratelli d’Italia, 20 Coraggio Italia, 5 Noi con l’Italia) ed è molto lontano dalla maggioranza assoluta.
Comunque, la retorica della defezione dei voltagabbana è ormai consustanziale al populismo un po’ vittimistico e un po’ cospiratorio della politica italiana. E quindi accompagna ogni voto, pure quelli in cui i presunti voltagabbana non sarebbero stati comunque sufficienti a determinarne l’esito. Anche sull’elezione del capo dello Stato, Meloni continua a ripetere che il centrodestra ha perso l’occasione di eleggere un proprio presidente. Occasione che nei fatti non è mai esistita.
È vero che sulla candidatura di Elisabetta Casellati i franchi tiratori sono stati una settantina, ma al centrodestra al completo sarebbe mancata comunque un’altra cinquantina di voti per arrivare a quota 505. E nessun candidato tra quelli ventilati o proposti dalle forze di centro-destra poteva anche solo avvicinarsi a questo obiettivo. Però recriminare contro i voltafaccia e i tradimenti nel Palazzo è ormai il canone retorico insostituibile della lamentazione populista. E per questa via si giunge facilmente a chiedere poteri di elezione diretta e di investitura “sacrale” di vertici del potere politico. Tutto si tiene. (Public Policy)
@carmelopalma
(foto Daniela Sala / Public Policy)