Anticorruzione, Nordio: la norma su chi confessa? Così è inutile

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di Leopoldo Papi

ROMA (Public Policy) – “Sono molto favorevole al fatto di dissociare l’interesse a tacere che hanno sia il corruttore sia il corrotto, che deriva dal fatto che sono entrambi incriminabili. Se si avvalgono della facoltà di non rispondere, è più difficile che venga raggiunta la prova del reato che hanno commesso”. Lo afferma, contattato da Public Policy, Carlo Nordio, già procuratore aggiunto di Venezia, commentando la norma contenuta in una bozza del ddl Anticorruzione, poi approvato ‘salvo intese’ dall’ultimo Consiglio dei ministri, di cui Public Policy ha preso visione, che prevede la non punibilità per i soggetti che hanno commesso reati di corruzione, che denuncino spontaneamente gli illeciti prima di essere stati iscritti nel registro degli indagati, o entro tre mesi dal loro verificarsi.

“Lo strumento migliore per rompere la convergenza di interessi a tacere – commenta – è quello proprio di non punire uno dei due. In questa scelta, tuttavia, penso sia più corretto non punire il corruttore, perché è un privato cittadino, mentre il corrotto è un pubblico ufficiale, e quindi la sua infedeltà è molto più grave. Detto questo è ingenuo pensare che l’impunità del corruttore, che serve a farlo parlare, e quindi a farci ricostruire l’accordo corruttive, possa funzionare come vorrebbe questo progetto di legge, entro tre o sei mesi dal momento del reato commesso, e prima che venga iscritto nel registro degli indagati. Così la norma è assolutamente inutile, perchè nessuno, prima di essere scoperto, andrà a ‘vuotare il sacco’ dal procuratore della Repubblica, o dai carabinieri, perché non ha nessun interesse e spera sempre di farla franca”.

Per il magistrato dunque, il tema della non punibilità si dovrebbe porre quando invece una persona è stata individuata come corruttore e quindi è sotto indagine. “Allora a quel punto deve fare i suoi calcoli se gli convenga parlare e collaborare con noi – e in tal caso viene premiato, spiega – oppure continuare a fare quella che è una sua legittima scelta, cioè difendersi e rischiare il processo”.

Più nello specifico, una disposizione della norma contenuta nel ddl governativo, rileva Nordio, solleva un’ulteriore problema di applicazione di questo metodo. Si tratta della clausola che stabilisce che l’impunità non scatta se la “confessione” è stata ‘preordinata’ rispetto al reato. Tale clausola, spiega, implica che “se uno va a confessare prima di essere iscritto nel registro degli indagati, poiché il magistrato dovrà verificare queste condizioni, lo dovrà iscrivere obbligatoriamente, per porlo in condizione di difendersi, e perché quando c’è una causa di impunità occorre che ci sia un provvedimento del Gip di archiviazione”. A questo punto, conclude, “si ripresentano aggravati i problemi già descritti, perché nessuno sarà così matto non solo da andare a confessare tutto prima di essere indagato, ma da andare a confessare tutto sapendo che sarà subito iscritto tra gli indagati”. È quindi, osserva, “una norma assolutamente inutile”.

Passando al tema dell’inasprimento delle norme sul traffico di influenze – pena massima elevata da 3 a 5 anni, assorbimento del reato di millantato credito – il giudizio di Nordio è netto: “Il traffico di influenze, come l’abuso d’ufficio, è un reato così generico e vago, che intanto è di difficile dimostrazione. In secondo luogo ha come effetto di paralizzare l’attività della Pubblica amministrazione. Proprio in quanto questi reati sono estremamente vaghi e generici, qualsiasi pubblico amministratore può essere raggiunto da un’indagine sulla base di argomentazioni opinabili, salvo poi essere assolto. La stragrande maggioranza, quasi il 100% di reati di abuso di atti d’ufficio finiscono nel nulla perché sono di difficilissima prova. Sono contrarissimo non solo all’inasprimento delle pene, per questo reato, ma anche al mantenimento del reato di traffico di influenze e anche di abuso di atti d’ufficio che secondo me dovrebbero essere eliminati”. (Public Policy)

@leopoldopapi