Assange sarà pure una vittima, ma non un martire dell’informazione

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di Carmelo Palma

ROMA (Public Policy) – Un articolo di Alberto Mingardi uscito su Il Mulino sfida quel riflesso conformista che, per lunghi anni, ha consentito a molti, per non dire a tutti i liberali, non solo in Italia, di liquidare la vicenda di Julian Assange nei termini di un perverso e ostile hackeraggio del sistema democratico occidentale, e di quello statunitense in particolare e quindi di giustificare l’abnormità del suo caso giudiziario come la conseguenza inevitabile e meritata di un’attività ragguagliabile allo spionaggio e come tale perseguita.

La provocazione intellettuale di Mingardi non può essere a sua volta liquidata come un beau geste di bastiancontrarismo libertario, perché il direttore dell’Istituto Bruno Leoni non si limita affatto a reclamare il rispetto dei diritti del “nemico” Assange, ma lo elegge esplicitamente ad “amico” e martire della libertà di informazione, invitando i suoi denigratori a distinguere la qualità e l’attendibilità delle informazioni fornite dalle rete di WikiLeaks dai sospetti sui possibili committenti e beneficiari delle sue spericolate operazioni.

“Se andiamo – scrive Mingardi – al nocciolo della questione, essa ci appare di disarmante semplicità: Assange ha dato notizie che non dovevano essere date” e quindi la sua attività, anche se mossa da interessi inconfessati e condotta in spregio di norme legali e deontologiche fondamentali contribuisce alla difesa della società aperta. “Il fatto che il pezzo di mondo in cui viviamo sia fra i più liberi della storia non è indipendente dall’esistenza di una libera stampa che si pensa come un contropotere”. Dunque, per usare una citazione cara a Mingardi, come non dobbiamo aspettarci dalla generosità del macellaio, ma dal suo interesse, che ci fornisca delle buone bistecche, non dobbiamo aspettarci dalla generosità dei giornalisti, ma dal loro interesse, che ci forniscano buone notizie, anche se l’interesse fosse, come sostengono i denigratori di Assange, quello di un ricettatore e propalatore degli arcana imperii occidentali a libro paga dei nemici dell’Occidente.

Il ragionamento di Mingardi ha un indubbio fascino e una controintuitiva sottigliezza, ma parte da un presupposto decisamente confutabile. Il presupposto è che l’attività di Assange e in generale la diffusione disintermediata di dati (che si tratti di file, di foto, di audio o di filmati) sia una forma di informazione e che il prodotto dell’esposizione al bombardamento mediatico sia una forma, per quanto indotta e condizionata, di conoscenza. Che insomma Assange con Wikileaks abbia dato al cittadino, a ogni singolo cittadino del mondo elementi utili per comprendere gli eventi e farsene un’idea informata e personale.

Assange, al di là delle sue intenzioni che – su questo sono d’accordo con Mingardi – non rilevano ai fini del giudizio sul fenomeno Wikileaks, è stato invece il protagonista di un’impresa di comunicazione del tutto post-giornalistica e post-informativa. Se anche fosse riuscito a trafugare l’intero archivio segreto dell’intelligence Usa e a riversarlo in rete (cosa peraltro impossibile, perché qualunque pubblicazione implica una selezione) ciascuno dei suoi utenti ne avrebbe usato qualche lacerto per confermare i propri bias, mentre l’informazione serve esattamente al contrario: a metterli in discussione e a demistificarli. Se il prodotto dell’informazione sono le notizie e le idee, il prodotto della comunicazione sono il pubblico e il consenso.

Assange voleva creare e allargare il pubblico sensibile e favorevole a una determinata operazione politica o di potere, peraltro pure dichiarata nei suoi presupposti ideologici. Non è stato un grande giornalista, ma un geniale pubblicitario. Non importa, ripeto, chi ci fosse dietro. Basta e avanza quel che c’era davanti, il fine che Assange dichiarava, cioè la guerra al Sistema e alle guerre Usa. Che informazione e comunicazione usino gli stessi mezzi e gli stessi materiali mediatici non significa che siano la stessa cosa e non due cose sostanzialmente opposte. Che i dati diffusi siano genuini e non contraffatti non implica affatto che non ne sia contraffattoria la rappresentazione.

Le stesse foto e gli stessi video del massacro di Bucha sono stati utilizzati in Occidente per denunciare l’orrore dei crimini compiuti dagli occupanti e sono stati spacciate da parte russa come la prova della messinscena degli ucraini. Le immagini della strage del pane di Gaza diffuse dall’Idf sono diventate in tutto il mondo la prova del genocidio perpetrato da Israele, malgrado, in teoria, documentino che l’assalto al camion con i viveri abbia causato morti senza alcun intervento delle forze militari dello stato ebraico.

Durante il Covid è stato fatto credere a milioni di persone che i vaccini non funzionassero perché il numero dei morti in valore assoluto tra i vaccinati era stabilmente superiore a quello tra i non vaccinati. Una menzogna battezzata da due numeri veri. In Italia, malgrado il bilancio dei costi del superbonus 110% siano certificati e eclatanti nella loro difformità dalle previsioni del Governo Conte II, per circa la metà degli elettori sono una misura del successo di una proposta rivoluzionaria, che non solo rimborsava, ma retribuiva a carico del bilancio dello Stato la spesa privata degli italiani con benefici moltiplicati per l’economia nazionale (“…ma non ce lo dicono!1!11!”). Le fake news sono insomma qualcosa di molto più complesso dei fake data. I dati per l’informazione sono un problema da risolvere e l’informazione è un’ipotesi di spiegazione del rapporto tra di essi.

I dati quindi non sono l’informazione e meno che mai sono la verità dei fatti, che è sempre una teoria che si può discutere, provare o confutare razionalmente, ma non il tesoro di uno scrigno che è sufficiente scoperchiare per essere illuminati dalla rivelazione. Il dato è la mela che cade in testa a Newton, l’informazione è la teoria della gravità. Nessuna teoria è vera perché c’è qualche dato che in sé la dimostra senza bisogno di spiegazioni e di verifiche.

Fuor di metafora, l’informazione ha un approccio scientifico ai dati – anche se non nel senso delle scienze esatte – perché è una impresa cognitiva. La comunicazione no, visto che per quanto la sua tecnica sia altamente ingegnerizzata, è una macchina psicagogica, soprattutto quando si nasconde dietro l’apparente neutralità e autoevidenza dei dati. Parafrasando Easterbrook, se torturi i dati abbastanza a lungo, alla fine confesseranno qualsiasi cosa. I dati con cui Assange ha allagato la rete e anche moltissime e autorevolissime redazioni, che hanno provveduto a propria volta a propalarli, sono la trama di un racconto e poco importa che questo venisse raccontato da Wikileaks per soddisfare la clientela moscovita del titolare, come sospettano alcuni, o per far trionfare l’odio e il disprezzo che l’anarco-insurrezionalista digitale Assange covava fin da ragazzo contro il deep state statunitense, come è tutt’altro che irrazionale supporre. Disprezzo che nel 2016 gli ha fatto salutare con speranza il “cambiamento” legato alla sconfitta di Hilary Clinton e all’elezione di Donald Trump.

Nondimeno, anche pensando il meglio possibile di Assange e facendone un cavaliere errante del web, un critto-attivista senza paura e senza padroni, non si può ritenere che la sua pretesa di raccontare la verità degli Stati Uniti trafugando i file dagli archivi della Cia sia qualcosa di diverso dalla pretesa di raccontare la verità su un delitto trafugando dalle carte dell’inchiesta le conversazioni dei sospettati. L’informazione parla dell’indagine e al momento opportuno del processo e degli argomenti dell’accusa e della difesa. La comunicazione mette in pagina la foto del morto accanto alla velina dell’intercettazione dell’indagato, per propiziarne prima l’imputazione e poi la condanna. Produce insomma il pubblico necessario per la scenografia della forca.

Perché allora Mingardi fa di Assange un Don Chichiotte della libera stampa? Azzardiamo un’ipotesi: perché confida in senso libertario nelle magnifiche sorti e progressive della società della comunicazione digitale e nelle straordinarie potenzialità che questa mette a disposizione per organizzare la resistenza al Leviatano. “Se è vero che i governi cercano sempre di nascondersi, è altrettanto vero che nelle nostre società c’è qualcuno che prova a stanarli”, scrive ancora Mingardi e Assange è uno di questi.

Lasciamo da parte le considerazioni, pure abbastanza rilevanti, circa il fatto che non solo i governi, ma anche i cittadini hanno bisogno “di nascondersi” da un regime di trasparenza totale, da cui non discenderebbe un paradiso libertario, ma un inferno distopico. Il Panopticon è appunto una galera, un sistema di sorveglianza totalitaria.

Però, anche a prescindere dalla piega che un generalizzato “sorvegliamoci tutti” prenderebbe in una società in cui i mezzi e le capacità di sorveglianza non sono ugualmente distribuiti (non si realizzerebbe un comunismo ideale, ma uno stalinismo reale, sia pure in forma digitale) per considerare il fenomeno Assange una fortunata eterogenesi dei fini, che al di là delle intenzioni rafforza e non minaccia la società aperta, bisogna davvero credere a qualche forma di provvidenza storica e guardare con benigna negligenza gli effetti reali della degradazione del discorso pubblico a sottoprodotto della cosiddetta società della comunicazione.

Gli effetti di questo degrado sono visibili a tutti i livelli e sembrano tutti tragicamente correlati. Quelli cognitivi con quelli politici. Quelli culturali con quelli economici. Li si può snobbare solo confidando nel fatto che nella storia di cui abbiamo memoria un cambiamento e un’evoluzione tecnologica nel sistema di comunicazione del sapere e delle conoscenze ha indefettibilmente prodotto un salto evolutivo positivo per l’umanità e una emancipazione dal dominio dei poteri assoluti e, se questo è valso nel passaggio dagli amanuensi alla stampa a caratteri mobili, varrà certamente anche nel passaggio dalla televisione al web e dal web ai social network e al metaverso digitale. Però i “dati” – sia detto ironicamente – non supportano tutta questa fiducia e sembrano piuttosto confermare che il destino dell’homo democraticus è quello di una difficile sfida per la sopravvivenza, non del trionfo della conoscenza grazie all’effrazione spionistica dei database del potere. (Public Policy)

@carmelopalma