Autonomia differenziata, la commedia degli equivoci

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di Carmelo Palma

ROMA (Public Policy) – La discussione nell’aula del Senato del disegno di legge quadro sull’autonomia differenziata ha scoperchiato non solo il vaso di Pandora delle ostilità tra la maggioranza e l’opposizione del cosiddetto Campo Largo, ma anche quello degli equivoci e dei malintesi su un provvedimento, che è sostanzialmente diverso dalla rappresentazione che ne fanno sia i favorevoli (l’inizio della “rivoluzione federalista”), sia i contrari (la “legge spacca-Italia”). Alla generalità degli elettori non è chiara neppure la differenza tra l’autonomia differenziata e la cosiddetta devolution, su cui nella prima metà degli anni zero, quasi vent’anni fa, si era ricongiunto il centro-destra italiano, riassorbendo la Lega post-secessionista, dopo la rottura tra Lega e Forza Italia a tempi del Governo Berlusconi I (1994). D’altra parte è difficile che l’opinione pubblica possa autonomamente rettificare una storia raccontata tra mille travisamenti dagli stessi protagonisti e amplificata da un’informazione politicamente assai poco indipendente.

Iniziamo a rimettere in ordine le date e, a seguire, i fatti. Al tramonto della XIII legislatura, nel marzo del 2001, la maggioranza di centro-sinistra approvò una legge costituzionale concernente “Modifiche al titolo V della parte seconda della Costituzione”. L’obiettivo era quello di sbarrare la strada al centro-destra forza-leghista o almeno di rallentarne la corsa, modificando la Costituzione in senso regionalista e ampliando invero a dismisura le materie sottoposte a legislazione concorrente (allo Stato la definizione dei principi, alle Regioni le norme di attuazione). Questa riforma è diventata famosa per avere moltiplicato i contenziosi e i relativi conflitti di attribuzione sollevati davanti alla Corte Costituzionale, essendo il confine tra le competenze legislative dello Stato e quelle delle Regioni difficile da tracciare con una linea netta. In ogni caso, malgrado fosse stata approvata da una maggioranza che di lì a poco avrebbe perso le elezioni, quella riforma passò indenne allo scrutinio referendario, visto che il centro-destra, che nel frattempo aveva vinto le elezioni politiche della primavera 2001, non si mobilitò contro e mantenne una posizione neutrale, considerando comunque preferibile incassare subito un po’ di regionalismo prima di portare la spallata allo Stato centralista.

Come si diceva, di quella poi lungamente criticata riforma del Titolo V della seconda parte della Costituzione l’articolo simbolo era il 117, sulle nuove competenze legislative di Stato e Regioni. Ma quella riforma recava anche una importante modifica dell’articolo 116, che al terzo comma riconosceva la possibilità di conferire alle Regioni “ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia” su tutte le materie sottoposte a legislazione concorrente (dalla tutela della salute al governo del territorio; dalle reti di trasporto alla produzione e distribuzione dell’energia) e su alcune specifiche materie riservate alla potestà esclusiva dello Stato (norme generali sull’istruzione, tutela dell’ambiente e giustizia di pace). Il conferimento della maggiore autonomia avrebbe dovuto passare da una legge “approvata dalle Camere a maggioranza assoluta dei componenti, sulla base di intesa fra lo Stato e la Regione interessata”.

Questa norma è rimasta a lunga congelata perché il centro-destra ha tentato inutilmente di superare il regionalismo differenziato con una riforma più radicalmente federalista, che approvò nel 2005 in una versione meno radicale del previsto, all’interno di una legge di riforma costituzionale più complessiva, che però non superò la prova del referendum confermativo. Parecchi anni dopo, fallito nella XVI legislatura il nuovo tentativo del Governo Berlusconi IV (2008-2011), e naufragato anche il tentativo della riforma Renzi-Boschi del 2016 di circoscrivere la portata dell’articolo 116 della Costituzione, il centro-destra riesumò il second best dell’autonomia differenziata, in particolare con due referendum popolari consultivi che si tennero in Veneto e in Lombardia nel 2017, con cui i rispettivi governi regionali chiesero e ottennero dagli elettori un mandato forte per chiedere più autonomia al governo nazionale. Seguendo quella scia, anche una regione governata dalla sinistra, l’Emilia Romagna, avanzò un’analoga richiesta, senza passare dalla via referendaria. Da allora, tutti i governi che si sono succeduti (Gentiloni, Conte I, Conte II, Draghi) sono stati incalzati per dare seguito a questa disposizione costituzionale, senza venirne a capo. Nell’attuale legislatura, il Governo Meloni, con il ministro Calderoli, ha ripreso in mano il dossier.

Questa è la storia di ieri, ora passiamo all’oggi. Il testo, che sarà licenziato all’inizio della prossima settimana dal Senato, è molto meno brutto di quel che appare agli spregiatori e assai meno bello di quel che sembra agli entusiasti. In primo luogo, va detto che Calderoli ha accettato una strada che la Lega ha sempre guardato con sospetto: quella di una legge quadro che fissa i criteri generali delle singole intese tra lo Stato e le Regioni e ne stabilisce le modalità di esame preliminare e di approvazione definitiva da parte del Parlamento. È esattamente la strada su cui si erano mossi i ministri Boccia nel Governo Conte II e Gelmini nel Governo Draghi e che aveva avversato la ministra leghista Stefani, che voleva procedere con intese dirette, per cui si erano nel frattempo aggiunte a quelle di Veneto, Lombardia e Emilia-Romagna le richieste di numerose altre Regioni: Piemonte, Liguria, Toscana, Marche, Umbria e Campania. Questa scelta di forma ha nel corso dell’esame in commissione portato a conseguenze di sostanza: la principale è la definizione di un quadro di compatibilità normative e finanziarie nazionali per le singole intese tra Stato e Regione.

La polemica sul rischio di “rubare” alle regioni povere per dare alle regioni ricche rispetto a funzioni politico-amministrative fondamentali – a partire da sanità e istruzione – ha conseguito il risultato involontario di portare la maggioranza su di una posizione che, con gergo leghista, si potrebbe definire molto centralista, cioè la predeterminazione e il finanziamento su tutto il territorio nazionale dei cosiddetti Lep (Livelli essenziali delle prestazioni) e dei relativi costi e fabbisogni standard su una serie di materie (istruzione, tutela dell’ambiente, tutela del lavoro, ricerca scientifica e innovazione, tutela della salute; alimentazione; ordinamento sportivo; governo del territorio; porti e aeroporti civili; grandi reti di trasporto e di navigazione; ordinamento della comunicazione; produzione e distribuzione nazionale dell’energia; valorizzazione dei beni culturali e ambientali e promozione di attività culturali), come condizione per procedere a conferire su di esse una maggiore autonomia alle singole regioni. Nei fatti questa legge introduce una disciplina di automatica subordinazione della garanzia nazionale “dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali” (articolo 117, comma 2, lettera m della Costituzione) al riconoscimento sulle relative materie di ulteriori forme di autonomia alle Regioni.

Le vicende del federalismo all’italiana sono state finora tutt’altro che gloriose, anche perché il particolarismo territoriale raramente è correlato a un’effettiva capacità di autogoverno e il divario tra le ambizioni di sovranità e la possibilità e capacità di esercitarla concretamente ha dato spesso risultati grotteschi e socialmente regressivi, in particolare al Sud. Dall’avvento della Lega nel panorama politico italiano e dallo scoppio della questione settentrionale le Regioni sono per lo più state il grande “vorrei ma non posso” della politica italiana e il loro potenziamento istituzionale non ha arrestato, ma semmai accompagnato il processo di crescita dei divari territoriali. In questo quadro, la proposta di legge del Governo potrebbe addirittura avere una funzione virtuosa in ottica nazionale, prevedendo di ancorare il finanziamento delle funzioni delle Regioni a criteri oggettivi e non legati a rapporti di forza politici. Di questa virtuosità però è difficile che la legge quadro possa dare concretamente prova, perché mancano non solo i soldi, ma anche i conti che questi soldi dovrebbero finanziare.

Quanto costeranno le Regioni “a regime”? Di più o di meno di oggi? Chi pagherà le maggiori spese e come rimedieranno le regioni meno efficienti agli eventuali tagli di una spesa inefficiente? La legge non risponde a queste domande come non risponde ad altre, per cui servirebbe comunque una modifica costituzionale: che senso ha mantenere semi o para-regionalizzate competenze che chiaramente attengono alla politica nazionale, come ad esempio le grandi reti di trasporto, la produzione e distribuzione di energia e il commercio con l’estero? Prima di differenziare il regionalismo, non sarebbe il caso di differenziare più precisamente le competenze dello Stato da quelle delle Regioni? In assenza di queste risposte, la legge sull’autonomia non è né buona, né cattiva. Praticamente, non è nulla. (Public Policy)

@carmelopalma