di Carmelo Palma
ROMA (Public Policy) – Sarà pur vero che, come diceva Enrico Cuccia delle azioni, in alcuni casi anche i voti non si contano, ma si pesano. Da questo punto di vista alcuni risultati inaspettati del centrosinistra allargato danno il senso di una vittoria assai più ampia di quanto non dicano i numeri.
Si pensi ai casi eclatanti di Verona e Catanzaro, con il trionfo del centrosinistra su un centrodestra maggioritario, ma diviso, tanto al primo quanto al secondo turno, o a quello della irriconoscente Monza, che, neopromossa nella seria A calcistica grazie alla dirigenza e ai quattrini berlusconiani, ha mandato FI all’opposizione. I dati però danno un quadro non corrispondente a quello del supposto trionfo del “campo largo” di Letta.
Dall’analisi di Youtrend risulta che nei comuni sopra i 15.000 abitanti andati al voto il centrodestra aveva 54 sindaci uscenti e oggi ne ha conquistati complessivamente 58. I sindaci uscenti del centrosinistra erano 48, quelli uscenti del M5s erano 8: totale 56. Ora sommando quelli eletti dal centrosinistra con e senza M5s (rispettivamente 15 e 38) e dal M5s da solo (1) si arriva a 54. Decisamente più favorevoli i dati dei capoluoghi di provincia andati al ballottaggio, dove il centrosinistra aveva 3 sindaci uscenti e ora ne ha 7 (in alcuni casi, in alleanza con il M5s), mentre il centrodestra passa da 10 a 4.
In ogni caso, nelle dichiarazioni ufficiali del centrosinistra, in particolare di fonte Pd, non solo si festeggia un successo più grande delle dimensioni che effettivamente ha avuto, ma soprattutto si afferma la fiducia di sconfiggere nelle urne delle elezioni politiche il centrodestra: fiducia che sembra mancare, al momento, del presupposto fondamentale di un accordo tra tutti i potenziali contraenti per una coalizione raccolta attorno al Pd, che vada da Sinistra italiana a Azione/+Europa (passando per Verdi, Articolo 1, il M5s di Conte e la “cosa” di Di Maio, nonché Italia viva).
Questo accordo oggi non c’è affatto, la scissione grillina non lo avvicina e le pregiudiziali di Calenda verso Conte e Di Maio lo allontanano: peraltro, in termini elettorali, la compagine non potrebbe avere neppure una forma così ampia, cioè un numero di liste coalizzate così elevato, a meno di un aggiustamento delle regole del Rosatellum ancora più profondo di quello di cui abbiamo già scritto e a cui rimandiamo per la spiegazione delle caratteristiche tecniche.
L’impressione è che da parte del Pd oggi si scommetta, prima che sull’unità di una siffatta e tuttora ipotetica coalizione, sull’implosione del centrodestra per la repentina e contestuale crescita di FdI e discesa della Lega e per la prolungata marginalità di FI, legata dal patto Berlusconi-Salvini al destino del Carroccio.
Al momento, dal punto di vista tecnico-elettorale, ci sono molti elementi per considerare azzardata la speranza del centrosinistra di vincere le elezioni politiche come ha vinto molte delle recenti amministrative: perché il centrodestra diviso va in ordine sparso o sostiene per ritorsione il nemico esterno (ad esempio: Tommasi) contro il nemico interno (ad esempio: Sboarina). A congiurare contro un simile scenario sono incentivi molto pratici, legati al funzionamento del sistema elettorale per le elezioni politiche.
In primo luogo bisogna pensare che il sistema elettorale per le elezioni politiche è misto: tre ottavi dei seggi sono assegnati in collegi uninominali a turno unico, i restanti nei collegi plurinominali e in ragione proporzionale tra liste di partito “bloccate” (senza voto di preferenza). In secondo luogo non è possibile disgiungere il voto tra la parte proporzionale e quella maggioritaria. Non si può scegliere, per fare un esempio, Forza Italia come voto di lista e votare per il collegio uninominale un candidato, cui non sia collegata la lista di Forza Italia.
Le divisioni nei comuni sono state favorite dal doppio turno e anche dal voto disgiunto previsti dalla legge elettorale. Il doppio turno ha in alcuni casi spinto le diverse forze di centrodestra a correre separatamente al primo turno, creando fratture che per il secondo turno non sono state ricomposte. Il voto disgiunto e un sistema proporzionale in cui, a differenza delle politiche, c’è il voto di preferenza, ha poi trasformato lo scontro elettorale nei comuni in un tutti contro tutti, che ha attraversato le coalizioni e anche i singoli partiti. Alle elezioni amministrative è perfettamente normale sentire candidati a sindaco o al consiglio comunale chiedere espressamente il voto disgiunto: “vota per il partito che vuoi, ma votami come sindaco”, “vota il sindaco che vuoi, ma vota me per il consiglio comunale”.
Alle elezioni politiche non esistono incentivi normativi che possano azionare questi processi, che sono costati particolarmente cari al centrodestra. Teoricamente è certo possibile che, ad esempio, lo scontro tra Meloni e Salvini porti, per responsabilità dell’una o dell’altro o addirittura per un indirizzo comune, a una sorta di omicidio-suicidio del centrodestra. Ma è chiaro a tutti, a partire dagli interessati, che si tratterebbe di una scelta in cui tutti perderebbero qualcosa e nessuno guadagnerebbe abbastanza per compensare le perdite.
La divisione tra le forze del centrodestra le renderebbe tutte sostanzialmente escluse dalla competizione per i collegi uninominali: con poco più del 20% nazionale, stando ai sondaggi di oggi, né FdI, né la coppia Lega-FI potrebbero andare lontani in uno scontro tripolare o anche quadripolare (se si formasse un centro liberale autonomo). La fine di un centrodestra potenzialmente maggioritario disarmerebbe anche la retorica anti-sinistra, che è dal punto di vista ideologico il collante più forte, proprio perché negativo, della coalizione.
Bisogna inoltre considerare che ovunque in Italia, nelle regioni e nei comuni, con pochissime eccezioni, il centrodestra al governo è unitario e la fine di quel centrodestra nazionale rischierebbe di avere effetti a cascata anche sul piano locale. È più ragionevole ipotizzare, malgrado gli scontri si moltiplichino sempre più frequentemente anche nei territori, dalla Sicilia alla Lombardia, che un potere locale molto diffuso e radicato funzioni da meccanismo di compattamento del centrodestra anche sul piano nazionale.
Il sistema di voto maggioritario è anche un incentivo alla scelta della strategia del campo largo da parte del Pd. Non tanto perché teoricamente questo campo largo potrebbe avvicinare la percentuale nazionale del centrodestra, ma perché una coalizione costruita sul Pd e su sette partiti (SI, Verdi, Articolo 1, M5s, la “cosa” di Di Maio, Azione/+Europa e Italia viva) oggi stimati poco sopra o poco sotto la soglia di sbarramento del 3% diventerebbe di fatto, dal punto di vista politico, una coalizione monocolore allargata (con tutti i rischi di frammentazione incontrollata, come la vecchia Unione) e dal punto di vista elettorale consentirebbe al Pd di fare il pieno di seggi.
Stando ai sondaggi di oggi (si consideri l’ultima supermedia Youtrend) solo tre di questi partiti supererebbero lo sbarramento del 3% (Pd, M5s e Azione/+Europa), quindi gli altri, superando tutti l’1%, in base alle regole del Rosatellum cederebbero i propri voti ai partiti della coalizione sopra lo sbarramento e ne rimpinguerebbero la rappresentanza parlamentare. Insomma la strategia del “campo largo”, posto che questo possa mai materializzarsi, servirebbe al Pd come partito, ma non servirebbe al momento – i numeri dei sondaggi possono ovviamente sempre cambiare – a impedire quella che nella pubblicistica progressista viene definita “la vittoria delle destre”.
Occorre infine considerare che la permanenza di una legge elettorale maggioritaria è quella che consente di usare più largamente il richiamo della foresta frontista e l’argomento del voto utile contro i partiti – in particolare quello di Calenda – più recalcitranti a entrare in una coalizione zeppa di contraddizioni e unita solo dalla lotta contro il nemico. Con un sistema elettorale proporzionale un Pd abbastanza indirizzato, in particolare al Sud, su una china melenchoniana patirebbe certamente di più la competizione di un partito liberal-progressista di stampo macroniano.
Tutto questo spiega perché il Pd sia stato finora così refrattario a spingere per una trasformazione in senso proporzionale della legge elettorale, che scompaginerebbe la coalizione del “campo largo” modello “Biancaneve e i sette nani”, ma disarticolerebbe in profondità il centrodestra, sganciando il destino di ciascun partito da quello degli altri, offrendo incentivi positivi all’autonomia politico-elettorale delle diverse forze politiche e magari innescando processi di ricambio in alcune di esse (ad esempio nella Lega).
Per i numeri che ci sono in Parlamento e per l’ampiezza della compagine di Governo non è pensabile che ad approvare una legge proporzionale con una soglia di sbarramento del 4 o 5 per cento siano i soli parlamentari che non appartengono alle forze di centrodestra. Se pure si trovassero i voti, evidentemente le conseguenze per il Governo sarebbero esiziali.
La via del proporzionale passa solo da un accordo con Berlusconi e Salvini. Che sono stati finora dichiaratamente contrari, ma che potrebbero però considerare che questa è l’unica strada non suicidaria per affrancarsi dalla subordinazione a Giorgia Meloni e sottrarsi a una deriva lepenista, che Forza Italia ha sempre detto di avversare e che oggi non premia più la Lega, bensì Fratelli d’Italia. (Public Policy)
@carmelopalma