Nel primo documento ufficiale dell’Amministrazione Biden sulla politica estera, la Cina scavalca definitivamente la Russia nella classifica degli avversari di Washington, mentre l’Europa scivola dietro l’Indo-Pacifico in quella degli alleati. E “sicurezza economica” diventa sinonimo di “sicurezza nazionale”.
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di Marco Valerio Lo Prete
ROMA (Public Policy) – Il modello democratico costituisce un vantaggio per gli Stati Uniti sullo scacchiere globale, ma allo stesso tempo può trasformarsi in un loro potenziale punto debole. La Cina ha scavalcato senza dubbi la Russia e il terrorismo internazionale nella classifica degli avversari globali più temibili di Washington. Nella classifica parallela degli alleati americani, invece, l’Europa è scivolata lentamente alle spalle di un’entità – sempre meno geografica e sempre più politica – come l’Indo- Pacifico. In estrema sintesi, ecco quanto emerge dal primo documento strategico ufficiale di politica estera dell’Amministrazione Biden, l’Interim National Security Strategic Guidance. “Un documento che trasmette la visione del presidente Joe Biden su come l’America si rapporterà al mondo – si legge nella presentazione della Casa Bianca – per fornire una guida ai dipartimenti e alle agenzie federali affinché uniformino il loro modo di agire mentre l’Amministrazione inizia a lavorare a una Strategia di sicurezza nazionale”.
La democrazia americana, vantaggio o debolezza?
“Il nostro mondo è a un punto di svolta”, “le dinamiche globali sono mutate”, e si assiste a “un’accelerazione delle sfide globali – dalla pandemia alla crisi climatica, passando per la proliferazione nucleare e la quarta rivoluzione industriale”, tuttavia “una cosa è certa: avremo successo nel far avanzare gli interessi americani e nel difendere i nostri valori universali soltanto se lavoreremo come fossimo uniti da una causa comune con i nostri alleati e partner più stretti, rinnovando quelle che sono le fonti durature della nostra forza nazionale”, spiega il presidente democratico Biden nelle due pagine di introduzione scritte di suo pugno. “Ciò comincia dalla rivitalizzazione del nostro vantaggio fondamentale: la nostra democrazia”, aggiunge, contestando la tesi secondo cui i regimi autoritari si starebbero dimostrando più adatti a districarsi nel mondo d’oggi.
Tuttavia, nel paragrafo dedicato a una panoramica della sicurezza globale, gli estensori del documento iniziano dall’osservare che “le democrazie del pianeta, inclusa la nostra, sono sempre più sotto assedio. Le società libere sono state sfidate dall’interno dei propri confini: da corruzione, disuguaglianza, polarizzazione, populismo, minacce illiberali allo Stato di diritto. Le tendenze nazionaliste e nativiste – accelerate dalla crisi da Covid-19 – producono una mentalità del tipo ‘ciascun-Paese-per-sé’ che ci rende tutti più isolati, meno prosperi e meno sicuri”. È solo in seconda battuta che si delineano “i rischi dall’esterno dei nostri confini”. Come si legge nel prosieguo dedicato alle “nostre priorità di sicurezza nazionale”, “difendere e nutrire le fonti sottostanti la forza americana, incluso il nostro popolo, la nostra economia, la nostra difesa nazionale e la nostra democrazia in patria”, è la prima esigenza dettata dal perseguimento della “sicurezza nazionale”.
Solo dopo, per intenderci, viene “la promozione di una distribuzione vantaggiosa del potere per scoraggiare e prevenire quegli avversari che volessero minacciare direttamente gli Stati Uniti e i nostri alleati, inibendo loro l’accesso ai beni comuni globali, o al dominio in alcune regioni chiave”. In un documento sulla politica estera, tanta attenzione al “foro interno” lascia trasparire probabilmente una qualche incertezza sulla propria compattezza domestica, al di là delle consuete petizioni di principio.
La triplice sfida alla Cina: valori, sicurezza, economia
Fuori dai confini nazionali, invece, quali sono i principali pericoli per gli Stati Uniti, secondo il documento appena pubblicato? In 23 pagine, la Cina è nominata 14 volte, la Russia 5 volte. Nella National Security Strategy del 2017, stilata dall’Amministrazione del repubblicano Donald Trump, la Cina era citata 33 volte, la Russia 25 volte. Se invece ci spingiamo fino all’ultimo testo di questo tipo attribuibile alla Presidenza di Barack Obama, cioè la National Security Strategy del 2015, allora la classifica degli avversari più citati era capovolta: la Russia era menzionata 15 volte, la Cina solo 10 volte e perlopiù in passaggi che ostentavano ottimismo e benevolenza rispetto alle mosse di Pechino, tra una frase sulla “portata senza precedenti della cooperazione con la Cina” e un’altra sull’“impegno rivoluzionario sull’ambiente”. Sei anni dopo quel documento obamiano, i Democratici sono tornati alla Casa Bianca ma i toni e i contenuti, oltre che la quantità d’attenzione dedicata alla potenza asiatica, sono radicalmente cambiati. Nelle prime righe della National Security Strategy dell’Amministrazione Biden, si legge: “Oggi ci confrontiamo con un mondo caratterizzato da crescente nazionalismo, democrazia in ritirata, rivalità montante con Cina, Russia e altri Stati autoritari”. E più avanti: “Dobbiamo fare i conti con una realtà in cui la distribuzione di potere nel pianeta sta mutando, creando nuovi pericoli. La Cina, in particolare, è rapidamente diventata più assertiva”. Il colosso asiatico è definito “l’unico concorrente potenzialmente in grado di combinare assieme la sua forza economica, diplomatica, militare e tecnologica per incarnare una sfida duratura a un ordine internazionale stabile e aperto”.
La sfida con Pechino si snoda su almeno tre livelli diversi, seppure collegati fra loro. Sul piano dei valori, come detto, si confrontano esplicitamente due modelli: quello democratico americano e quello autocratico cinese. Il primo modello, come confermato dall’intenzione del Presidente Biden di convocare un “Summit per la Democrazia”, potrà essere rafforzato dall’approccio multilaterale che la nuova Amministrazione intende perseguire: “Le nostre alleanze democratiche ci consentono di presentare un fronte comune, di produrre una visione unificata, di mettere assieme la nostra forza per promuovere standard più elevati, per stabilire regole internazionali efficaci, per chiedere conto a Paesi come la Cina del loro operato”. Ecco dunque il piano della sicurezza internazionale tout court. Qui c’è una sorpresa per i lettori europei. Quando nel testo si citano partnership e alleanze globali, infatti, l’Europa sembra scivolare sistematicamente dietro l’Indo-Pacifico in termini di priorità attribuita da Washington. “Dovremo riconoscere – si legge in un passaggio – che i nostri interessi nazionali vitali implicano la connessione più stretta possibile con l’Indo-Pacifico, l’Europa e l’emisfero occidentale”. In quest’ordine.
E ancora, qualche pagina dopo: “Gli Stati Uniti non dovrebbero impegnarsi, e non lo faranno, in ‘guerre senza fine’ che sono costate migliaia di vite e miliardi di miliardi di dollari. Ci impegneremo per mettere fine, responsabilmente, alla guerra americana più lunga di sempre, in Afghanistan, assicurandoci allo stesso tempo che il Paese non diventi di nuovo un rifugio sicuro per dei terroristi che possano attaccare gli Stati Uniti. Altrove, mentre ci posizioneremo in modo tale da scoraggiare i nostri avversari e difendere i nostri interessi, lavorando al fianco dei nostri alleati, la nostra presenza sarà più robusta nell’Indo-Pacifico e in Europa”. In quest’ordine, di nuovo. Solo un dettaglio? Difficile pensarlo. In Europa c’è chi ne prende atto e si muove di conseguenza: non a caso lo scorso 3 marzo, lo stesso giorno della pubblicazione della Interim National Security Strategic Guidance di Biden, perfino il Ministero della Difesa della Germania – quindi di una potenza europea eminentemente “continentale” e pacifista – ha fatto sapere che dal prossimo agosto una fregata militare di Berlino comincerà a navigare nell’area dell’Indo-Pacifico, con tre obiettivi: “Un ordine internazionale fondato sulle regole, rotte commerciali libere e multilateralismo”.
Infine, per Washington, la sfida con la Cina si gioca nel campo economico, e anche in questo caso l’Indo-Pacifico è il primo e più ravvicinato bastione anti-cinese. Secondo l’Amministrazione Biden, “le nostre politiche devono riflettere una verità piuttosto semplice: nel mondo di oggi, sicurezza economica è sinonimo di sicurezza nazionale”. Da qui l’esigenza di “unire le nostre forze a quelle delle democrazie a noi simili per sviluppare e difendere catene globali del valore e infrastrutture tecnologiche di importanza critica”. Pechino non viene citata esplicitamente, ma è sempre la potenza cinese a incombere sullo sfondo quando la Casa Bianca scrive che “le nostre politiche commerciali ed economiche internazionali devono essere al servizio di tutti gli Americani, non solo di pochi privilegiati. La politica commerciale deve alimentare la crescita della classe media americana, creare nuovi e migliori posti di lavoro, aumentare i salari, rafforzare le comunità”.
Motivi e obiettivi non dissimili, sulla carta almeno, da quelli che hanno portato all’ascesa del repubblicano sui generis Donald Trump nelle elezioni presidenziali del 2016. Anche stavolta, però, tra le righe non si nascondono alcune crepe del primato americano, e così l’Amministrazione Biden esplicita la volontà di “ricostruire meglio in patria”, “build back better at home”, rafforzando gli investimenti in scienza e tecnologia, nell’informatica soprattutto e nella manifattura di frontiera. “Proteggeremo i nostri investimenti con attenzione e lungimiranza, per plasmare ed estendere vantaggi strategici duraturi. Espanderemo la nostra forza lavoro nei settori della scienza e della tecnologia, investendo nello studio delle discipline STEM (Science, Technology, Engineering and Mathematics, ndr), in cui l’America attualmente sta perdendo terreno […]. Costruiremo un’infrastruttura digitale all’altezza del XXI secolo, incluso l’accesso universale ed economicamente abbordabile a Internet ad alta velocità e a reti 5G sicure”. Pechino è avvertita.
@marcovaleriolp