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La sorprendente parabola di Dagong nel Belpaese. Dagli esordi scoppiettanti alla ritirata silenziosa, passando per il vibrante battage filo-cinese negli anni 2013-2014 e le sue conseguenze di lungo termine
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di Marco Valerio Lo Prete
ROMA (Public Policy) – “Dagong”. I lettori più attenti alle recenti vicende economiche del nostro Paese forse ricorderanno questo nome. Nel caso contrario, ecco un piccolo aiuto: Dagong Global Credit Rating Company Ltd. (di seguito “Dagong”) è una società cinese nata all’inizio degli anni Novanta come agenzia di rating dichiaratamente indipendente, arrivata alla ribalta mediatica mondiale nel 2010 con la promessa di insidiare i colossi occidentali del rating, e oggi diventata un’azienda pubblica nelle mani del Partito comunista cinese e quasi del tutto ignorata dalla stampa internazionale. In questa parabola, di per sé rivelatoria di certe evoluzioni del capitalismo finanziario cinese, l’Italia ha avuto un ruolo di un qualche rilievo. Il nostro Paese, infatti, è stato sicuramente un teatro privilegiato della strategia espansionistica di Dagong. Dopo aver tratteggiato in un altro scritto l’evoluzione globale dell’azienda, è su questa fase “italiana” che ora vorrei concentrarmi.
Nel 2010 i nostri media, come altri in Occidente, “scoprono” per la prima volta Dagong e danno conto di un suo rapporto sui rischi sovrani, per alcuni aspetti eclatante. All’epoca infatti, secondo gli analisti cinesi, la Repubblica Popolare Cinese è lo Stato che si merita il giudizio migliore (AA+), più degli Stati Uniti che non sono all’altezza della tripla A assegnatagli da tutte le altre società di rating. Il giudizio “AA” per Washington fa notizia, ma desta ancora più clamore, qualche mese dopo, il declassamento di novembre a un più modesto “A+”. La stampa italiana, in compagnia di quella internazionale, inizia dunque a raccontare l’imminente debutto dell’agenzia di rating cinese nel mondo della finanza internazionale che conta. Un debutto, vedremo, annunciato a più riprese, specialmente nel nostro Paese. La prima particolarità è che mentre Dagong si prepara lungamente per i suoi futuri report da cui scaturiranno giudizi di rating propriamente detti, mentre la società attende per mesi i necessari permessi delle autorità europee, mentre cerca con cautela una sede – così raccontano i retroscena – nel frattempo già “bacchetta”, “boccia” o a volte “promuove” i Governi italiani, “sfida” e “alza la voce” contro gli Stati Uniti e i colossi del rating, si erge a “ponte” o “hub” degli investimenti cinesi in Italia.
Il filo del racconto mediatico italiano comincia dunque nel 2010, dopo la pubblicazione di un primo controverso studio sui rischi sovrani, quando il presidente di Dagong, Guan Jianzhong, prima getta un’ombra sulla sostenibilità dell’euro (Il Foglio, 16 luglio 2010), poi con un’intervista all’agenzia confindustriale Radiocor sale in cattedra e spiega che le tre Big del rating “sono orientate ideologicamente, usano il Pil pro capite come indicatore chiave della forza economica di un Paese, dimenticando l’importanza della crescita potenziale, e utilizzano parametri politici ed economici applicabili solo ai Paesi sviluppati”. Nel 2011, nel pieno delle montagne russe dello spread, Dagong “non si fa remore a bastonare l’Italia nel giorno più critico” (L’Espresso, 21 luglio 2011), inserendo Roma nella lista degli osservati speciali a rischio declassamento. In una lunga intervista allo stesso settimanale, il 28 luglio, sempre Guan Jianzhong – oltre ai consueti appelli a riformare il sistema internazionale di rating – critica le misure d’austerity e la manovra finanziaria in gestazione da parte del Governo Berlusconi in quanto “di difficile attuazione”, poi biasima frammentazione e instabilità della politica italiana. I toni si smussano un po’ col tempo. Il 7 settembre dello stesso anno, Corriere della Sera e Sole 24 Ore dedicano ampio spazio a un’intervista concessa da Guan al quotidiano in lingua inglese China Daily, di proprietà del cosiddetto Dipartimento Propaganda del Partito comunista cinese.
“Parte dalla Cina, con l’aiuto di Romano Prodi, la santa alleanza contro lo strapotere delle tre grandi agenzie di rating” statunitensi, è l’incipit dell’articolo del Sole 24 Ore. “La Cina sfida i giganti del rating. Superagenzia con l’aiuto di Prodi”, titola il Corriere. L’ex Presidente del Consiglio ed ex capo della Commissione europea, attaccato poi da Libero sul tema, precisa qualche mese dopo: “Sarei ovviamente felice che entrino in fretta altre imprese in questo settore (del rating, ndr) così delicato, e tra queste vi può essere evidentemente posto per Dagong, con cui non ho avuto e non ho alcun rapporto economico ma che ho conosciuto nel corso della mia permanenza in Cina e il cui arrivo in Europa dovrebbe essere salutato con favore”. E Prodi in effetti non sarà l’unico a salutare con favore Dagong, soprattutto dopo che a fine 2011 si scopre che il gruppo sta pensando di insediare la sua sede europea a Milano. Il Corriere della Sera racconta che Enrico Cucchiani, al tempo Ceo di Intesa Sanpaolo, la prima banca italiana, durante la sua visita a Pechino dell’ottobre 2012 “ha parole di fiducia per l’agenzia di rating Dagong: ‘Mi auguro possa avere un effetto di stabilizzazione’”. Il sindaco di Milano Giuliano Pisapia, quando si tratterà nel 2015 di descrivere il successo dell’Expo a Milano, rivendicherà sul Sole 24 Ore: “Milano ospita la sede europea della Dagong, la società di rating con cui la Cina ha rotto il monopolio anglosassone di S&P’s, Fitch e Moody’s”.
Dal 2010 Dagong insomma fa molto parlare di sé, nel mondo e particolarmente in Italia, ma gli “anni d’oro” del suo protagonismo nel nostro Paese sono senza dubbio il 2013 e il 2014. Nell’estate del 2013, i giornali annunciano il “debutto” della società, l’ennesimo. “La cinese Dagong sbarca in Europa”, titola il Sole 24 Ore l’8 giugno, dando conto del via libera dell’authority europea dei mercati finanziari (l’ESMA) alla controllata europea “Dagong Europe” che ora potrà emettere rating di credito – per istituzioni finanziarie e non – nei 27 Paesi dell’Ue. La società nasce a Milano da una joint-venture tra la cinese Dagong Global Credit Rating e il fondo di private equity italo-cinese Mandarin Capital Partners. Lo stesso fondo cui appartiene Lorenzo Stanca che, nell’autunno 2011, aveva accompagnato il presidente Guan Jianzhong in un tour esplorativo delle capitali europee e nella sede dell’ESMA. Mentre Alberto Forchielli, che di Mandarin Capital era fondatore e Managing Partner, nell’agosto 2011 aveva commentato positivamente il declassamento Usa a opera della società cinese, scrivendo per l’agenzia Radiocor che “nuove voci come quella di Dagong, per quanto il suo verdetto si sia rivelato doloroso negli eventi sui mercati dei giorni scorsi, devono essere accolte da Unione Europea e Stati Uniti come la terapia ottimale per i mali del mondo del rating. Un numero maggiore di agenzie, animate da una più intensa competizione, è, quasi paradossalmente, l’unica arma con cui poter vincere la battaglia per rating veramente indipendenti e credibili”.
Tre anni dopo, dall’accordo tra Dagong e fondo Mandarin Capital nasce dunque Dagong Europe: italiana la sede, italiano il direttore generale di Dagong Europe, Mauro Alfonso, un passato ai vertici di Fitch in Italia e attualmente amministratore delegato di Simest (Gruppo CDP); italiano il vicepresidente, Lorenzo Stanca, in quota Mandarin Capital; italiano anche il consigliere indipendente Marco Cecchi de’ Rossi; italiana infine sarà la Compliance officer, Eleonora Bianchi. Dagong Europe non può ancora emettere rating sovrani, eppure è proprio sui grandi scenari internazionali che si concentra la presenza mediatica del presidente Guan che nel luglio 2014 si rivolge così ai giornali italiani: “La crisi del debito è esplosa negli Stati Uniti ma è l’Europa ad averne pagato le conseguenze maggiori. E questo anche per la relazione di dipendenza tra rating espressi dalle agenzie Usa e la crisi dei debiti sovrani europei”. Ribadisce “non siamo eterodiretti da Pechino”, salvo aggiungere poco dopo: “La Cina è un Paese creditore e ha materialmente bisogno di tutelare le sue esigenze, non è più possibile un sistema in cui è il debitore a pagare l’agenzia per emettere giudizi”. A soli quattro mesi dall’apertura della sede in Italia, con un team di appena quindici analisti internazionali (fonte: Sole 24 Ore, 2 luglio 2013), Dagong Europe si vede attribuire il premio “Investimento cinese in Italia” nell’ambito dei China Awards assegnati a novembre dalla Fondazione Italia-Cina (presieduta allora da Cesare Romiti) e da Mf/Milano Finanza alla presenza di Liao Juhua, Console generale di Milano per la Repubblica Popolare Cinese. A quasi un anno dall’inizio della nuova avventura in Italia, nella primavera 2014, Dagong Europe ha già cambiato il general manager, visto che a Mauro Alfonso succede il tedesco Ulrich Bierbaum. La società non può ancora assegnare rating sovrani, promette che “entro la fine del 2014” ci saranno “i primi due rating di corporate italiane”, ma intanto interviene pubblicamente – spesso e volentieri – sulla politica estera e sulla politica domestica dell’Italia.
Così il think tank ISPI, Mandarin Capital Partners (socio fondatore come detto di Dagong Europe) e la Fondazione Italia-Cina organizzano per esempio il seminario intitolato “La Cina di Xi Jinping: le opportunità per l’Italia”, e tra gli speaker c’è Lorenzo Stanca per Dagong Europe. Il general manager Bierbaum si spinge a commentare le elezioni europee, e – ripreso dai principali quotidiani nazionali – afferma che “è un segno positivo che Renzi abbia avuto l’appoggio degli elettori. Ora l’Italia dovrà andare avanti con le riforme e se continuerà su questa strada potrà beneficiare, in misura sempre crescente, del forte interesse che gli investitori cinesi hanno per l’Eurozona”. Dagong Europe, ovviamente, si propone come “un ponte per favorire e accompagnare gli investimenti sino-europei”, dice nell’estate 2014 a Mf/Milano Finanza il presidente Guan, e anche lui sull’Italia ora sembra aver maturato un giudizio più positivo: “Renzi ha avviato riforme credibili e l’attuale rating sull’Italia è troppo basso”, afferma riferendosi però al giudizio di S&P’s. Intervista dopo intervista, il rating scivola sempre più sullo sfondo e in primo piano risalta l’opportunità costituita dagli investimenti cinesi. In ottobre, intervistato dal Sole 24 Ore, Bierbaum dichiara: “In Cina si considera l’Europa come un unico blocco economico che sta vivendo una difficile fase di crisi. Il nostro compito è di fare loro capire che l’Europa è un’area frammentata dove nonostante la fase di debolezza ci possono essere ottime opportunità. In Italia fino al 2013 gli investimenti cinesi avevano toccato 3,5 miliardi di euro, ma soltanto nel 2014 sono stati effettuati 3,4 miliardi con le acquisizioni di quote in società strategiche nei settori delle utilities, infrastrutture, Tlc e finanza. Questa accelerazione ha fatto scattare l’Italia al secondo posto dopo l’Inghilterra per investimenti cross border per un totale di 6,9 miliardi. Una cifra destinata a salire – assicura Bierbaum – con l’interesse crescente non solo nei grandi player, ma anche nelle piccole e medie imprese”.
E poi felicitazioni per riforme e privatizzazioni annunciate (oltre che per i prezzi degli asset non proprio alle stelle). D’altronde il 2014, come notava già allora Camilla Conti sul Fatto quotidiano, è “l’anno del Dragone, nel salotto buono ormai si parla cinese”: “Nel giro di poche settimane la Banca centrale cinese ha investito nel nostro Paese quasi 6 miliardi di euro. Con quote sempre appena superiori al 2% si è seduta di peso nel salotto buono della nostra economia: Eni, Enel, Telecom, Prysmian, Fiat-Chrysler, Generali, Ansaldo Energia oltre che Cdp Reti (lo scrigno societario che controlla Terna e Snam) tramite la controllata State Grid”. Dagong predica bene, gli investitori pubblici cinesi razzolano ancora meglio. Nel 2015 l’agenzia di rating torna sulle pagine dei quotidiani nazionali; sono i giorni dell’Expo milanese, dove ben tre padiglioni battono bandiera di Pechino (il più grande investitore dopo l’Italia che è ospite dell’evento), e Dagong pubblica il suo rapporto su “un anno da record per gli investimenti esteri cinesi”: “Il 2014 si è chiuso con 18 miliardi di dollari investiti in società europee – sintetizza il 24 Ore – più che raddoppiati rispetto l’anno precedente quando si erano fermati a 6 miliardi di dollari, lontani dal picco degli 8 miliardi del 2011”. Per l’Italia, a dire il vero, non è tutto oro quel che luccica, tanto che ancora oggi, nel 2021, il governo guidato da Mario Draghi – secondo la ricostruzione del quotidiano Repubblica – ragiona su come diluire il peso eccessivo assunto proprio nel 2014 dalla State Grid of China nel capitale di CDP Reti, pari al 35% del capitale della società italiana che è a monte di aziende chiave come Snam, Terna e Italgas.
IL CAMBIO DI ROTTA DEGLI INVESTIMENTI CINESI E IL TRAMONTO EUROPEO DI DAGONG
Dopo l’exploit mediatico nel 2013-2014 in concomitanza con una crescente attenzione cinese verso gli asset italiani, dal 2015 l’ascesa internazionale di Dagong per qualche ragione si interrompe. Alla fine del 2014, per prima cosa, si registra uno scossone di non poco conto nella governance del gruppo: il fondo italiano Mandarin Capital esce da Dagong Europe, il deputy chairman Stanca dice di aver accettato l’offerta della casa madre ma assicura che “il fondo continuerà ad aiutare l’agenzia nella crescita delle proprie attività”. Soprattutto, a partire dal 2015 si assiste a un netto spostamento degli investimenti esteri cinesi: i Paesi dell’Europa meridionale (Italia, Spagna, Portogallo e Grecia), destinatari del 40% di tutti i fondi provenienti da Pechino nel 2014 e nel 2015, scendono a circa il 10%, fino a ridursi al 6% del totale nel 2020, mentre aumenta sensibilmente il peso di destinazioni come il Regno Unito, la Germania e in generale l’Europa settentrionale (fonte: Rhodium Group).
Contemporaneamente, Dagong Europe sparisce in modo piuttosto repentino dai riflettori mediatici italiani. Niente più interviste ad ampio spettro sugli equilibri politici globali, niente più promesse di investimenti cinesi in arrivo, figurarsi poi i giudizi sui rating sovrani che alla fine non sono mai stati emessi. Tutto tace. Nell’agosto 2018, il Sole 24 Ore riporta che il governo di Pechino “accusa” la società madre cinese di conflitti di interesse con le stesse imprese per le quali emette rating di credito. Alle accuse seguiranno d’altronde decisioni drastiche: l’Associazione Nazionale degli Investitori Istituzionali sul Mercato Finanziario (NAFMII) e la China Securities Regulatory Commission impongono a Dagong la sospensione delle attività. Lo stop dura oltre un anno, fino al novembre 2019, ed è seguito dalla ristrutturazione interna e dall’acquisizione totale dell’agenzia di rating da parte dello Stato cinese. Il 14 novembre 2019, l’Autorità europea degli strumenti finanziari e dei mercati (ESMA) pubblica un comunicato in cui dà conto della (inusuale) richiesta di Dagong di privare la controllata Dagong Europe dello status di agenzia di rating accreditata per operare nel Vecchio continente. Nell’arco di poche settimane, dunque, Dagong è formalmente nazionalizzata e l’indipendenza della società dallo Stato cinese svanisce, così come Dagong Europe che di punto in bianco non è più operativa. Fu vera gloria? (Public Policy)
@marcovaleriolp