Cronaca di un voto annunciato. Alcuni dati da tenere presenti

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di Carmelo Palma

ROMA (Public Policy) – I risultati delle elezioni di domenica scorsa comportano molteplici interrogativi circa le scelte che, su questa base, compiranno le diverse forze politiche. Se è chiaro chi ha vinto e chi ha perso la partita elettorale, non è chiaro come le coalizioni di centrodestra e di centrosinistra, Italia viva-Azione e il Movimento 5 stelle intenderanno il mandato e il responso degli elettori. I voti che un partito ottiene, guadagna e perde rispetto alle elezioni precedenti o al previsto, sono certi e indiscutibili, ma non sono una verità autoevidente e non significano di per sé qualcosa, se non alla luce di una teoria che li interpreti secondo ipotesi, che possono essere più o meno pertinenti o arbitrarie, ma che non sono suscettibili di una conferma sperimentale.

Le elezioni danno risultati in numeri, non sono fisica e neppure matematica. Se è possibile sapere al di là di ogni dubbio che percentuale abbiano ottenuto i singoli partiti, non è proprio possibile arrischiare una spiegazione generale e onnicomprensiva dei singoli risultati. I risultati elettorali sono un insieme non unitario di effetti, che rispondano a un insieme non unitario di cause. L’errore più grave sarebbe di interpretare i numeri in una chiave meramente programmatica o ideologica, come se ad esempio il riavvicinamento di FI e Lega, entrambi in discesa, fosse dovuto a una maggiore efficacia delle promesse berlusconiane di quelle salviniane o alle più credibili referenze atlantiche del primo rispetto a quelle del primo rispetto al secondo. Questo non significa che non sia legittimo provare a trarre informazioni dall’esito delle elezioni, da cui emergono alcuni dati che è interessante annotare, ben sapendo che l’elenco è tutt’altro che esaustivo e che la loro interpretazione è, come dicevamo, complessa e tutt’altro che univoca.

Il primo dato è questo: abbiamo vissuto per anni nella persuasione che a essere maggiormente incline all’astensione fosse l’elettorato più qualunquista e radicalizzato, più sensibile ai messaggi populisti e più disponibile a salire sul carro del vincitore. In una elezione dall’astensionismo record, concentrato soprattutto nelle aree meridionali e periferiche, con redditi medi e titoli di studi più bassi, a essere riuscito complessivamente indenne è stato proprio il “voto contro”. I due principali vincitori delle elezioni – Meloni che è arrivata prima, Conte che è arrivato a una incollatura dal Pd, invertendo la tendenza a un declino che sembrava irreversibile – non hanno patito affatto l’astensionismo record ed è ragionevole pensare che ad astenersi non siano stati i clientes delusi da una politica refrattaria al do ut des, quanto al contrario i cittadini irritati o disgustati dal trionfo della democrazia di scambio.

Il secondo dato riguarda l’Esecutivo uscente: almeno due elettori su tre hanno votato per partiti che sono sempre stati contro il Governo Draghi o che in tempi recenti gli hanno negato la fiducia. In nettissima minoranza, invece, risultano i partiti che non si sono dissociati dalle responsabilità di questo Esecutivo (Pd e +Europa) o che ne hanno proposto esplicitamente la continuità (Azione-Italia viva). Il credito e il gradimento che Draghi continua a riscuotere presso l’opinione pubblica non ha avuto alcun effetto significativo sui comportamenti di voto. In parte può dipendere dal fatto che nessun soggetto o leader politico è riconosciuto come un interprete autentico del draghismo: in ogni caso il risultato delle urne riflette l’immagine di un’Italia politicamente dissociata, che da una parte si affida fiduciosa a Draghi e ai sostegni europei e dall’altra si rivolta rabbiosamente contro la “dittatura” dei vincoli politici e finanziari, che strangolerebbero l’Italia e le impedirebbero di prosperare, votando in massa per partiti populisti e sovranisti.

Il terzo dato riguarda la multipolarizzazione del quadro politico. Malgrado l’impegno della destra e della sinistra a riportare la dinamica politica nello schema binario dell’o di qua o di là, il ricatto del voto utile, in particolare a sinistra, non ha per nulla funzionato. Se le elezioni del 2018 avevano mostrato il volto di un’Italia tripolare, quelle del 2022 ripropongono, sia pure con diverse proporzioni, lo schema del 2013. I poli elettorali nazionali sono tornati a essere quattro e Italia viva-Azione ha grosso modo le dimensioni e l’orientamento di Scelta civica. È possibile che, come già avvenuto in passato, il multipolarismo politico nazionale sul piano locale (regioni e comuni) torni a semplificarsi, anche a causa di un diverso sistema elettorale con l’elezione diretta di sindaci e governatori. Però le partite dell’Italia politica non si giocano più a due.

Il quarto dato riguarda la stabilità elettorale della coalizione di centrodestra, pur a fronte di un radicale mutamento dei rapporti di forza interni. Il tramonto della leadership berlusconiana e il passaggio repentino dai successi di Salvini a quelli della Meloni, la partecipazione di Forza Italia e della Lega a Esecutivi “innaturali”, in questa legislatura come nella precedente, una serie di scissioni senza successo – da quella di Fini a quella di Alfano – hanno comportato lo spostamento a destra del baricentro della coalizione ma non ne hanno minato la stabilità. Da più di dieci anni il centrodestra unito non governa l’Italia, ora tornerà a farlo e proprio questa prova potrebbe rappresentare la minaccia più pericolosa alla sua unità. In ogni caso, lo scivolamento praticamente indolore della destra italiana da un conservatorismo mainstream, quello del primo Berlusconi, a un sovranismo sinistramente orbaniano e lepenista, se costituisce un fenomeno originale e praticamente senza uguali in Europa, rappresenta anche uno dei principali fattori di rischio per la democrazia italiana.

Il quinto e ultimo dato, che vale la pena evidenziare riguarda la parabola del Pd, che è stata l’infrastruttura semi-permanente dei governi delle ultime due legislature (con la parentesi del Conte I), e che esce consumato e disorientato da questa lunga stagione di potere. Se il Pd era nato nel 2007 con l’ambizione di diventare un vero e proprio “country party”, dichiarando una esplicita vocazione maggioritaria e proponendosi di modernizzare radicalmente la cultura di governo della sinistra, quindici anni dopo è un partito pesantemente risucchiato da un sinistrismo d’antan e ideologicamente subalterno al populismo grillino. È difficile prevedere dove porteranno le convulsioni di un partito che oltre a continuare a perdere le elezioni sembra avere perso anche l’identità, ma appare decisamente probabile che, finché la principale alternativa alla destra sarà questo Pd, sarà difficile immaginare il ritorno alla democrazia dell’alternanza. (Public Policy)

@carmelopalma