Dati alla mano, ecco i limiti di bilancio che il Governo non potrà superare

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di Marcello Messori* (pubblicato su LUISS Open)

ROMA (Public Policy) – Quella che segue è un’anticipazione del paper “The 2019 Budget Law: The dangers of Italy’s role in Europe”, disponibile in integrale in lingua inglese sul sito della LUISS School of European Political Economy

Il processo di stesura della prossima legge di Bilancio sta per iniziare; è in questo frangente che si capirà definitivamente la strategia di politica economica del nuovo Governo, così come il futuro della ripresa economica del nostro Paese. Come ogni manovra finanziaria, essa dovrà “manovrare” risorse che sono, per definizione, scarse; per reperirle, il Governo ricorrerà anche a nuovo indebitamento (deficit). Di quante risorse si può disporre senza compromettere l’equilibrio del bilancio pubblico italiano?

I NUMERI DI UNA MANOVRA “SOSTENIBILE”

Ritengo che un rapporto deficit/Pil dell’1,7% quest’anno e dell’1,2% nel 2019, che l’Italia farebbe registrare senza le spese preannunciate dal governo, sarebbe compatibile con la sostenibilità del debito pubblico del Paese e – tutto sommato – anche con le richieste europee. E’ infatti ragionevole attendersi una crescita nominale del Pil italiano che sia di poco superiore al 2,5% nel 2018 e nel 2019. Tale tasso di crescita – come spiego in maggiore dettaglio nel mio ultimo e sopra citato lavoro per la LUISS School of European Political Economy – garantirebbe un margine sufficiente per permettere una apprezzabile riduzione del rapporto debito/Pil e per aggiustamenti anche del deficit strutturale, ossia del deficit pubblico corretto per il ciclo economico. Pur se con ritardo rispetto agli impegni pressi dal precedente governo, l’Italia riuscirebbe così a raggiungere il suo Obiettivo di medio termine (MTO) nel giro di un tirennio.

In un simile scenario, sarebbe anche possibile reggere l’urto di un eventuale ulteriore innalzamento dei tassi di interesse. Ad oggi, considerando anche la durata media dei titoli del nostro debito pubblico che è poco superiore ai 7 anni, un aumento di 100 punti del tasso di interesse comporterebbe un aumento del rapporto deficit/Pil dello 0,11% nel primo anno (circa 1,9 miliardi di euro), dello 0,25% nel secondo anno (4,3 miliardi), dello 0,36% nel terzo anno (6,3 miliardi) e dello 0,45% nel quarto anno (7,8 miliardi). Di conseguenza, se anche prevedessimo un aumento medio dei tassi di 200 punti di qui alla fine del 2009, il rapporto deficit/Pil salirebbe nel 2019 dall’1,2% previsto all’1,5-1,6% e sarebbe ancora compatibile con una riduzione del rapporto debito pubblico/Pil e – pur se con qualche ulteriore ritardo – con il rispetto degli impegni verso l’Obiettivo di medio termine.

Queste conclusioni sono valide a due condizioni. La prima è che il confronto sulla Legge di Bilancio non comprometta ulteriormente il grado di fiducia degli investitori verso l’Italia, attraverso annunci di misure avventate. Diversamente, ancor prima di realizzare tali misure, la fragile tenuta del nostro bilancio pubblico sarebbe compromessa dalla caduta della domanda per i nostri titoli pubblici. Ciò ci porta alla seconda e ovvia condizione. E’ necessario che lo spread tra rendimenti sui titoli italiani e titoli di riferimento tedeschi non deve finire fuori controllo, perché a giudicare dalle attuali riserve di liquidità e dalla distribuzione delle scadenze dei titoli del debito, nel prossimo autunno un eventuale mancato accesso ai mercati finanziari consentirebbe all’Italia di resistere soltanto un mese. Dopo questi 30 giorni, l’Italia arriverebbe al default o sarebbe costretta a chiedere aiuti all’Europa attraverso l’ESM.

In definitiva, per avere ragionevoli possibilità che la Commissione europea riconosca all’Italia di perseguire una gestione sostenibile del proprio debito e che – quindi – la Commissione stessa non chieda una correzione della manovra nella primavera del 2015, la Legge di Bilancio dovrebbe fissare l’obiettivo di un rapporto deficit/Pil che – per il 2019 – non sia troppo distante dall’1,5-1,6%. Questa è la condizione per tutelare la stabilità economica che è condizione necessaria per il benessere di noi cittadini.

LA LISTA DELLA SPESA DEL NUOVO GOVERNO

Nelle scorse settimane, esponenti di primo piano dell’Esecutivo non hanno tuttavia escluso il superamento di un rapporto deficit/Pil del 3%. Anche la lista delle misure che comportano maggiori oneri in termini di spesa pubblica sembrerebbe andare in questa direzione. Nel 2019, ai 12,4 miliardi di euro richiesti per evitare che scattino le clausole di salvaguardia e dunque l’aumento dell’Iva, occorre aggiungere: almeno 5 miliardi di euro per iniziare ad applicare la “quota 100” all’attuale sistema pensionistico; almeno altri 6 miliardi di euro per lanciare la prima fase del reddito di cittadinanza; altri 6-7 miliardi per i primi cambiamenti del regime fiscale, aumentando la platea di beneficiari (piccole imprese, artigiani, partite Iva) della tassa piatta del 15% e introducendo una nuova aliquota minima per i redditi più bassi. Parliamo di circa 30 miliardi di euro, ai quali aggiungere voci di spesa già impegnate, esborsi per le soluzioni dei casi ILVA, Alitalia e altre società private in difficoltà, il prolungamento del super-ammortamento per gli investimenti nell’Industria 4.0, eccetera. Pur assumendo che vi saranno aumenti solo simbolici degli investimenti pubblici, il totale delle uscite pubbliche da coprire nel prossimo anno ammonterebbe a circa 40 miliardi di euro.

LA DIFFICILE MEDIAZIONE DEL MINISTRO TRIA

Il ministro dell’Economia, Giovanni Tria, ha proposto finora una sorta di mediazione per contenere gli eccessi prospettati da altri esponenti dell’esecutivo. Tale mediazione insiste sulla necessità di continuare nel processo di riduzione del rapporto debito pubblico/Pil nel 2019 e negli anni successivi. Il problema è che questo impegno non garantisce che la diminuzione del debito pubblico sia sufficiente a soddisfare le condizioni della sua sostenibilità. Vediamo perché.

Il calo del rapporto debito pubblico/Pil, iniziato solo nel 2017, è stato finora appena percepibile. Nel 2018 c’è un’elevata possibilità che questo primo decremento non si irrobustisca di molto così che, diversamente da quanto annunciato, il debito pubblico rimarrà sopra il 131% del Pil. Una simile riduzione è incompatibile con l’Obiettivo di medio termine, cioè con l’aggiustamento strutturale delle finanze pubbliche per il quale ci siamo impegnati con le istituzioni europee; soprattutto, essa è incompatibile con la sostenibilità di medio periodo del nostro debito e, dunque, con la stabilità della nostra economia. Per il 2019 dobbiamo ridurre il rapporto debito/Pil in misura significativa. Di conseguenza, l’impegno del ministro Tria non basta: si potrebbe proseguire nella diminuzione del rapporto debito/Pil per qualche frazione di decimale anche con un deficit/Pil vicino al 2,5%; ma si tratterebbe, appunto, di diminuzioni impercettibili e insufficienti.

La mia conclusione dovrebbe essere chiara: per quanto il tentativo di mediazione del ministro Tria sia apprezzabile, non basta un impegno del governo a ridurre il rapporto debito pubblico/Pil. Essendo compatibile con un rapporto deficit/Pil vicino al 2,5%, un impegno del genere non rende di per sé credibile il percorso di aggiustamento delle finanze pubbliche italiane. Per tutelare la sostenibilità dei nostri conti, è necessario affiancare all’impegno sulla riduzione del rapporto debito pubblico/Pil anche l’impegno a non superare un rapporto deficit/Pil dell’1,5-1,6% nel 2019. Purtroppo temo che senza un cambiamento drastico delle politiche fiscali dell’attuale Governo, questo secondo impegno sia impossibile da assumere e – soprattutto – da realizzare. (Public Policy)

*professore di Economia, direttore della LUISS School of European Political Economy e presidente del Comitato scientifico del Centro Europa Ricerche (CER)