Decreto Art bonus: un’autentica rivoluzione? (seconda parte)

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– Leggi la prima parte

ROMA (Public Policy) – di Vitalba Azzollini* – Nella prima parte sono stati esaminati alcuni dei motivi per i quali il decreto art-bonus non sembra costituire una “autentica rivoluzione”, come il Ministro dei beni culturali l’ha definito. Questa conclusione può essere supportata da osservazioni ulteriori.

Si è esposto in precedenza come la previsione di più consistenti sgravi fiscali ai mecenati possa concorrere a eliminare i fattori distorsivi di una corretta allocazione delle risorse provenienti da elargizioni liberali al settore dell’arte: il d.l. n. 83/2014, tuttavia, non ha preso in considerazione un altro elemento che contribuisce ad alterare la distribuzione più efficiente delle risorse suddette. Si rileva, al riguardo, che i benefici fiscali disposti dall’art. 100, c. 2, lettera m), TUIR, menzionato nella prima parte, sono inerenti alle erogazioni in favore di iniziative culturali effettuate esclusivamente nei confronti dei soggetti elencati dal d.m. 3 ottobre 2002.

Questi ultimi sono “riconducibili a tre ambiti: il primo comprende le figure pubbliche o semi-pubbliche, ossia gli enti pubblici in senso stretto nonché i soggetti aventi natura privatistica ma fortemente legati alla sfera delle amministrazioni territoriali (quali fondatrici o associate, oppure quali titolari di poteri di indirizzo o controllo); il secondo include gli organismi privati che abbiano avuto accesso negli ultimi cinque anni a sovvenzioni pubbliche; il terzo si riferisce agli organismi privati che risultano titolari o gestori di musei o affini. E’ soprattutto la seconda area ad assumere rilievo, poiché […] comporta che non possano beneficiare delle erogazioni liberali pressoché tutte le realtà private estranee al sistema dei finanziamenti pubblici”.

La struttura così delineata dei contributi complessivamente forniti alla cultura sembra fondarsi sull’assunto che la qualifica di destinatari di sussidi da parte dello Stato equivalga, di fatto, a una certificazione di qualità, idonea a conferire conseguentemente il titolo a beneficiare di sussidi ulteriori, vale a dire quelli privati indicati nella normativa citata. Ne discende, come accennato, che coloro i quali non abbiano in passato ricevuto pubbliche sovvenzioni – risultando in questo modo già penalizzati rispetto a chi invece ne avesse goduto – si trovino a essere svantaggiati una seconda volta.

Dunque, l’effetto distorsivo già indotto dalla destinazione di sostegni pubblici ad alcuni soggetti, ad esclusione di altri, viene così evidentemente amplificato. Forse in ragione di tale circostanza, il d.m. 3 ottobre 2002 aveva previsto che l’elencazione delle categorie dei destinatari delle donazioni “agevolate” venisse periodicamente aggiornata, “al fine di valutare la possibilità e le modalità di identificazione di quei soggetti privati che, pur svolgendo meritoria attività nell’ambito dei beni culturali e dello spettacolo, essendo di recente costituzione, non percepiscono contributi dallo Stato, dalle Regioni o dagli Enti locali”: tuttavia, tale elencazione non è stata in seguito modificata. In merito al profilo sopra esaminato, si sottolinea che negli Usa – ove “le arti sono trattate come un bene pubblico e finanziate come un bene privato” – il sistema di sovvenzionamento del settore culturale è organizzato in senso opposto: una diminuzione dell’intervento privato comporta la conseguenza che anche quello pubblico venga ridotto.

Si tratta del principio del c.d. matching grants, in forza del quale i fondi federali vengono concessi e commisurati in relazione ad alcuni indicatori di performance o alla capacità da parte dell’istituzione beneficiaria di ottenere supporto da fonti diverse. Il collegamento così articolato induce un meccanismo virtuoso, il cui buon funzionamento è garantito dall’offerta di contenuti culturali di livello: lo Stato impiega risorse pubbliche, quindi di pertinenza della collettività, per sostenere le iniziative nei riguardi delle quali la collettività stessa abbia espresso maggiore apprezzamento, in termini di erogazioni a propria volta effettuate.

E’, pertanto, quest’ultima che, decidendo la destinazione del proprio apporto e incentivata da misure fiscali adeguate, indirizza il complessivo finanziamento. La coerenza di detto sistema rende ancora più evidente l’incongruenza di quello nazionale, alla quale non si è ritenuto di rimediare neanche in occasione del decreto recentemente emanato, nonostante la valenza “rivoluzionaria” con cui lo si è, comunque, connotato. L’azione di policy intrapresa si sarebbe potuta reputare realmente innovativa qualora, tra gli altri obiettivi, essa avesse inteso supportare efficacemente la domanda culturale: alla stregua di quanto avviene ad esempio in Olanda, ove lo Stato accorda “un voucher spendibile a propria scelta in una o più istituzioni culturali.

Sulla base dei volume di voucher raccolti dai diversi teatri viene concesso, successivamente, il finanziamento statale”. Soluzioni quali quella configurata – per il settore in questione così come per altri – non vengono invece tenute in considerazione dal legislatore nazionale, nonostante la portata riformatrice che egli attribuisce a certi suoi interventi. Si osserva ancora che il decreto art-bonus avrebbe meritato la qualifica di “rivoluzionario” laddove avesse provveduto, tra l’altro, a semplificare le incombenze burocratiche di norma necessarie perché le donazioni culturali possano pervenire ai relativi destinatari. Al riguardo, basti notare che le Soprintendenze, salvo quelle speciali, non possono incassare direttamente contributi rivenienti da elargizioni liberali, mancando di strumenti contabili e gestionali che ne consentano l’introito. Pertanto, “occorre avviare complicate procedure o creare associazioni di Amici dei musei che facciano da intermediari.

E questo non facilita il rapporto con il donatore”. Nonostante la riduzione degli adempimenti amministrativi per imprese e cittadini che intendano erogare fondi in favore dell’arte, disposto dalla circolare n.222/2012, l’iter procedimentale da seguire per poter godere delle agevolazioni fiscali previste resta comunque complesso. Anche in questo caso, il confronto con quanto avviene in Paesi diversi può fornirne evidenza: ad esempio, “il visitatore dell’Abbazia di Westminster a Londra trova sui banchi una busta gialla dentro la quale può lasciare la sua donazione in contanti e scrivendo il suo nome e indirizzo sulla busta la procedura burocratica è conclusa. Riceverà a casa dall’ente beneficiario una ricevuta valida a fini fiscali.

E l’evasione e l’elusione fiscale nel Regno Unito non ne risente; è inferiore che in Italia”. Infine, il decreto art-bonus sarebbe stato definibile come “rivoluzionario” soprattutto se il legislatore avesse finalmente preso atto che la capacità del settore culturale di attrarre risorse non può costituire “solo un sottoprodotto di opportuni incentivi fiscali”: è, peraltro, acclarato che questi ultimi non sono di per sé sufficienti a stimolare l’inclinazione dei privati a finanziare l’arte. Una valutazione preventiva delle motivazioni individuali e dei fattori istituzionali che orientano il comportamento dei donatori avrebbe, infatti, dimostrato come elementi diversi dal mero sgravio fiscale possano risultare maggiormente determinanti al fine di rafforzare la tendenza alle elargizioni in discorso: tra questi, ad esempio, il riconoscimento sociale e, dunque, il ritorno reputazionale, scaturenti a propria volta dalla percezione, individuale e sociale al contempo, del supporto fornito all’arte come “partecipazione e restituzione alla collettività”.

La valutazione suddetta avrebbe consentito l’adozione di una strategia concretamente efficace al fine di accrescere la propensione alle donazioni in argomento, in quanto atta a far leva sui fattori motivazionali maggiormente rilevanti. Invece, prevale “un’enfasi mal posta della politica culturale, per cui l’introduzione di incentivi fiscali sembra essere il solo meccanismo preferito dai decisori politici in cerca di risorse economiche private”: ne consegue che gli effetti ottenuti dalla politica citata possano essere diversi da quelli perseguiti, in mancanza di un’analisi esaustivamente compiuta. A tale proposito, da una ricerca svolta sul tema emerge che le donazioni in favore di un ampio campione di musei britannici e nord americani svolgono un ruolo significativo se le strategie di fund raising sono mirate alla creazione di un legame molto forte tra museo e comunità locale o nazionale; al coinvolgimento dei donatori nella vita e nelle attività del museo, mediante la definizione e la realizzazione di obiettivi condivisi; alla specificazione a priori delle attività (in molti casi vincolate dagli stessi donatori, c.d. restricted funds) alle quali destinare le risorse; alla piena trasparenza dei processi di spesa delle somme ricevute e al monitoraggio dei risultati raggiunti.

“Gli incentivi fiscali funzionano solo se la strategia di raccolta fondi di un museo rispetti questi principi generali sintetizzabili, alla fine, in due parole chiave: partecipazione e trasparenza”. La ricerca stessa sottolinea, altresì, che in Italia la “potenzialità a donare non si trasforma in una effettiva erogazione per l’assenza di alcune condizioni che, in ordine decrescente di importanza, possono essere così sintetizzate: 1) scarsa trasparenza e tracciabilità nell’impiego delle elargizioni liberali raccolte dalle istituzioni culturali; 2) assenza ‘di meccanismi di riconoscimento sociale e visibilità personale per il donatore’; 3) un sistema di agevolazioni fiscali meno macchinoso nell’operare e più favorevole al singolo donatore.

Partecipazione, identità, reputazione e trasparenza, insieme agli incentivi fiscali o personali, dovrebbero, tutti insieme e in modo coordinato, essere alla base di una strategia finalizzata ad accrescere e convertire la propensione a donare”. Delle conclusioni raggiunte dalla ricerca menzionata e, quindi, della limitata capacità dei benefici fiscali a indurre un incremento delle erogazioni a sostegno dell’arte il legislatore non sembra aver tenuto conto. Infatti, ha ancora una volta demandato tout court alla politica degli sgravi tributari l’obiettivo di attrarre finanziamenti alla cultura da parte dei privati, non considerando dunque la circostanza che specifiche azioni pubbliche volte a rafforzare importanti motivazioni diverse – quali quelle reputazionali e pro-sociali sopra indicate – sarebbero forse state a tal fine più efficaci.

Al riguardo, si evidenzia inoltre il fatto che il credito di imposta previsto dal provvedimento art-bonus si risolve in un aumento di spesa per lo Stato: i benefici concessi agli autori delle elargizioni contemplate nel d.l. n. 83/2014, congiuntamente ad altri esistenti in ambiti diversi, concorrono a gravare sul bilancio statale per un ammontare complessivo di enorme rilevanza, con risultati peraltro non convincenti, in mancanza di un disegno progettuale più ampio nel quale le misure adottate siano inserite, nonché di un esame svolto ex ante allo scopo di supportarle adeguatamente.

Da quest’ultima osservazione, oltre che dalle altre sopra formulate, scaturiscono alcune domande sul decreto recentemente emanato: il livello delle agevolazioni fiscali ivi sancite è stato forse definito sulla base di un’analisi idonea a dimostrare che esso possa stimolare donazioni private consistenti o, comunque, tali da consentire l’afflusso al settore dei fondi a esso necessari? Si è, altresì, valutato preventivamente se l’ammontare delle risorse finanziarie così acquisite sia tale da compensare la perdita erariale? Il disposto normativo è stato, quindi, elaborato sulla base di una metodologia rigorosa, volta a stimare a priori gli effetti dell’intervento operato, per un periodo di tempo determinato? In occasione del varo del decreto art-bonus, il ministro dei Beni culturali ha dichiarato che i privati ora non hanno più alibi per non sostenere l’arte: di fatto, finché non verrà dimostrato in maniera trasparente che tra le varie opzioni di regolamentazione sia stata adottata quella più efficace, capace cioè di produrre i migliori risultati in relazione al fine perseguito, i destinatari delle disposizioni emanate continueranno ad avere “alibi” consistenti e motivati.

Invece, il legislatore nazionale insiste nel ritenere che prescrizioni dettate sulla scorta delle intenzioni migliori siano tali da plasmare la realtà nel senso desiderato e che l’applicazione concreta delle prescrizioni stesse risulterà idonea a conformarsi al teorico assunto di partenza. In genere, ciò non accade, ma il legislatore stesso, lungi dal prenderne atto e modificare il proprio modus operandi, continua a ostentare contenuti “rivoluzionari” senza fondarli su studi adeguati. Infatti, dell’analisi di impatto – mezzo necessario a valutare se i benefici derivanti da una nuova disciplina siano tali da sopravanzare i costi comunque a essa connessi – egli si avvale in maniera solo formale, quindi inutile sostanzialmente.

Peraltro, non sussiste l’obbligo di effettuare l’analisi suddetta per la decretazione d’urgenza, qual è quella che ha previsto l’art-bonus: le domande sopra formulate sono, pertanto, destinate a rimanere inevase. Dunque, anche con riguardo al profilo appena evidenziato, si potrà vantare a buon diritto un’autentica rivoluzione “culturale” quando a tale modalità normativa non si ricorrerà più in maniera abituale. (Public Policy)

@vitalbaa

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*Pubblicato su Leoni Blog