Democrazia sotto pressione. Lezioni dal duello Australia-Cina

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Non solo Coronavirus. Con moniti, dazi e sanzioni, la Cina ricorda all’Australia che assumere posizioni di principio sull’arena internazionale può avere un costo elevato. Canberra pensa a come farvi fronte, tra norme anti-interferenze straniere e rivisitazione delle proprie alleanze strategiche (con una mano tesa all’India)

di Marco Valerio Lo Prete

ROMA (Public Policy) – L’Australia, avevamo scritto esattamente due anni fa, è “il canarino occidentale nella miniera dell’autoritarismo rampante un po’ ovunque nel mondo”. Allora il Paese era scosso da una serie di rivelazioni inquietanti. Fecero scalpore, per esempio, le dimissioni del senatore laburista Sam Dastyari che ammise di aver ricevuto pagamenti da società e personalità cinesi, dopo aver difeso in pubblico l’espansionismo della Repubblica popolare nel Mar Cinese meridionale. Poi la minaccia di un finanziatore legato al Partito comunista cinese di ritirare una donazione da 400mila dollari al Partito laburista australiano a causa della posizione di un dirigente laburista favorevole alla libertà di navigazione sempre nel Mar Cinese meridionale. Quindi si scoprì che aziende cinesi o riconducibili a Pechino erano diventate, tra il 2013 e il 2015, le più munifiche finanziatrici sia dei Liberali che dei Laburisti. Sempre allora furono pubblicate inchieste giornalistiche sui fondi pubblici australiani per la ricerca scientifica che – tramite gli atenei locali – finivano più o meno consapevolmente per puntellare il tentativo dell’Esercito di liberazione del popolo di raggiungere e superare il livello tecnologico dell’esercito statunitense. Canberra rispose varando un pacchetto innovativo di norme anti-interferenze straniere, l’“Espionage and Foreign Interference Bill” e il “Foreign Influence Transparency Bill”. Con l’obiettivo, disse il premier di allora, il liberale Malcolm Turnbull, di evitare che “Stati stranieri utilizzino le nostre libertà per erodere la libertà, ricorrano alla nostra democrazia per sovvertire la democrazia, applichino le nostre leggi per minare lo Stato di diritto”. Una dichiarazione che peraltro conferma come Canberra abbia sempre fatto attenzione a non additare la Cina come sola e unica responsabile delle ingerenze nei suoi processi democratici; le norme difensive introdotte due anni fa erano infatti generali e applicabili in principio a qualunque Stato; eppure è indubbio che Pechino fosse, e sia rimasta a tutt’oggi, la convitata di pietra.

L’inchiesta sulla pandemia che ha fatto irritare Pechino 

Un tratto di penna, però, per quanto sancito dal voto parlamentare, non poteva certo spazzare via le tensioni strutturali tra l’Australia e la Cina. Quest’ultima, da una parte, con un miliardo e 400 milioni di abitanti governati ininterrottamente per 71 anni dal Partito comunista locale, col suo rampante capitalismo di Stato e una crescente assertività sul piano internazionale. Dall’altra parte l’Australia: 25 milioni di abitanti, una società multiculturale innestata su una democrazia tendenzialmente bipartitica di matrice anglosassone, un’economia di mercato tra le più solide del pianeta, e soprattutto un’alleanza strategica in essere con gli Stati Uniti. L’attuale pandemia di Coronavirus ha esacerbato le tensioni tra i due Paesi. La scintilla sembra essere stata la decisione del Governo australiano, a metà aprile, di promuovere – nell’ambito della Organizzazione mondiale della sanità (Oms) – una inchiesta indipendente sulle origini della pandemia manifestatasi ufficialmente per la prima volta nella città cinese di Wuhan. Il premier australiano Scott Morrison, distanziandosi su questo punto dal suo omologo statunitense Donald Trump, ha detto a più riprese che non ci sono ad oggi gli elementi per parlare di un virus fuoriuscito da un laboratorio cinese, ma è rimasto fermo sulla sua idea che una pandemia con elevatissimi costi umani ed economici a livello globale debba essere al più presto oggetto di indagine, per rispetto dei principi della cooperazione internazionale e per farsi trovare meglio preparati in futuro. Sempre in quest’ottica, Canberra ha anche chiesto in sede di G20 di mettere al bando i mercati di animali selvatici (proprio come quello di Wuhan da cui sarebbe originata, secondo Pechino, la pandemia).

Per tutta risposta le autorità cinesi hanno accusato “certi politici australiani di essere desiderosi di ripetere a pappagallo quello che dicono gli americani, e di limitarsi a seguire Washington nell’attaccare la Cina”; l’ambasciatore a Canberra, Cheng Jingye, non ha escluso forme di boicottaggio della popolazione cinese nei confronti di beni e servizi made in Australia; e una volta che in sede di Oms è stata approvata la risoluzione favorevole a un’inchiesta sul Coronavirus, seppure con un testo meno esigente di quello originariamente proposto dall’Australia, la stessa ambasciata cinese ha definito “nient’altro che una barzelletta” ritenere che questo risultato fosse una “rivincita” per quanto chiesto da Canberra. Parole e toni particolarmente duri per gli standard diplomatici cinesi, ha notato più di un osservatore.

La dipendenza economica dell’Australia dalla Cina 

Non è finita qui. Proprio negli stessi giorni delle schermaglie diplomatiche, infatti, dalla Cina sono arrivate decisioni che penalizzano l’economia australiana. Prima la sospensione delle licenze per l’esportazione ai danni di quattro importanti mattatoi australiani, ufficialmente per problemi risalenti a un anno fa sulla etichettatura delle carni. Poi, all’inizio della scorsa settimana, Pechino ha approvato dazi dell’80% per i prossimi cinque anni sull’orzo australiano, la cui esportazione verso la Cina vale ogni anno circa 600 milioni di dollari (negli anni scorsi si erano toccati picchi anche tre volte superiori); l’accusa rivolta agli agricoltori, risalente allo scorso novembre, è quella di praticare dumping e di ricevere sussidi dallo Stato. Dal 1° giugno, inoltre, sono previsti non meglio specificati cambiamenti per il regime di controlli sulle importazioni di minerali ferrosi, vale a dire la voce più importante dell’export australiano verso la Cina, con un valore di quasi 50 miliardi di euro lo scorso anno.

Le autorità di Pechino negano ci sia alcun legame tra queste scelte di natura commerciale e l’attuale tensione diplomatica tra i due Paesi, ma la tempistica delle sanzioni e delle modifiche legislative ha fatto parlare molti analisti di vere e proprie ritorsioni contro Canberra (sul Global Times, giornale in lingua inglese del Partito comunista cinese, si parla di “un implicito avvertimento”. Un tentativo, probabilmente, di mostrare all’opinione pubblica australiana – a partire dai suoi ceti produttivi – che la scelta dell’attuale Governo Liberale di assumere posizioni di principio sull’arena internazionale può avere un costo salato. Specie in una situazione come quella attuale in cui la Cina acquista il 32,6% di tutte le esportazioni australiane – soprattutto materie prime come minerali ferrosi, carbone e prodotti alimentari –, cioè lo stesso ammontare acquistato nel complesso dai cinque successivi partner commerciali di Canberra (Giappone, Corea del Sud, Stati Uniti, India e Nuova Zelanda). Dalla Cina, inoltre, proviene il 28% degli studenti stranieri che frequentano le università australiane, con l’educazione terziaria che è il terzo settore più importante nell’economia nazionale. Una dipendenza così marcata dell’economia australiana da quella cinese, unita al fatto che Canberra è un alleato strategico degli Stati Uniti nell’area Asia Pacifico, rendono l’Australia particolarmente vulnerabile agli occhi di Pechino, osservano alcuni analisti statunitensi.

La visita di Morrison in India e l’ascesa dell’Indo Pacifico 

Finora comunque la politica australiana è stata caratterizzata da un consenso tendenzialmente bipartisan sulla necessità di non deflettere rispetto al proprio interesse nazionale, da intendersi tra l’altro come difesa sull’arena internazionale di principi quali lo Stato di diritto e il rispetto dei diritti umani. Tuttavia non è affatto scontato che, in una situazione economica di colpo molto complicata dalla pandemia, settori del mondo produttivo e dell’opinione pubblica non mostrino una crescente insofferenza per una politica estera che possa generare attriti con la Cina e dunque compromettere gli indubbi vantaggi legati all’accesso a quel mercato. Per questo motivo, al fianco delle innovazioni legislative anti-interferenze straniere di cui abbiamo detto, il Governo australiano sembra voler ragionare su una rivisitazione delle direttrici di fondo della sua politica estera. Un significato simile lo si attribuisce per esempio all’incontro ufficiale (ovviamente online) tra il premier Morrison e il suo omologo indiano Narendra Modi, programmato per il prossimo 4 giugno. Come ha scritto Ben Packam sul quotidiano The Australian, il capo dell’Esecutivo australiano individua nell’India un partner commerciale sempre più importante. Non solo: Morrison e Modi, “sullo sfondo delle crescenti tensioni con la Cina, cementeranno nuovi accordi per sviluppare catene di valore affidabili in settori strategici, inclusi la produzione di farmaci, la tecnologia, alcuni prodotti minerari di importanza critica”. Senza dimenticare un possibile accordo specifico sulla formazione universitaria per incentivare la presenza di studenti indiani negli atenei australiani. Più in generale, cresce il numero di analisti che ritiene di assistere a un “Pivot to India”, quindi al fatto che l’area strategica di riferimento per l’Australia sarà sempre meno l’Asia Pacifico e sempre più l’Indo Pacifico. Ciò implica da una parte la presa d’atto che “il focus strategico dell’India si concentrerà nella fase attuale ben oltre l’immediato vicinato del Paese e coinvolgerà l’India nelle strategiche dinamiche di tutta la regione, con modalità mai viste finora dopo la Seconda guerra mondiale”; dall’altra parte che “l’ambiente marittimo probabilmente diventerà il focus principale della pianificazione strategica e della competizione strategica dei prossimi decenni”, ha affermato Peter Varghese, diplomatico di lungo corso e oggi rettore della University of Queensland. L’Australia, un po’ per scelta e un po’ per necessità, potrebbe spingersi su questa strada a mo’ di avanguardia. (Public Policy)

@marcovaleriolp