di Carmelo Palma
ROMA (Public Policy) – In questi mesi ha avuto qualche risonanza, nettamente inferiore però a quella che avrebbe meritato, l’iniziativa di Roberto Red Sox Mantovani, il tassista bolognese che ha denunciato lo scandalo dei colleghi no pos e con una provocatoria “operazione trasparenza” ha iniziato a pubblicare sui social gli incassi giornalieri. Incassi ragguardevoli e lontanissimi da quelli dichiarati e lamentati dalla generalità dei suoi colleghi.
Come era prevedibile, la sua iniziativa ha suscitato reazioni risentite e avvertimenti para- mafiosi (la sua auto è stata vandalizzata), ma non le risposte istituzionali che ci si sarebbe dovuti attendere dal Governo e dalle forze politiche alle prese con il vero e proprio default – in tutta Italia, con differenze quantitative ma non qualitative – di quello che in burocratese si definisce “autotrasporto pubblico non di linea”.
Eppure, l’iniziativa del coraggioso tassista bolognese svela quello che è un segreto di Pulcinella, cioè una verità di pubblico dominio, che una fitta rete di rapporti di potere, di condizionamento e di ricatto rende impronunciabile ed inservibile, costringendo il legislatore nazionale e gli amministratori locali ad “azzeccagarbugliare” giustificazioni risibili per non affrontare la situazione per quella che è, cioè partendo dalla rendita, insieme economica e di potere, degli attuali titolari di una licenza taxi.
I tassisti italiani dichiarano in genere redditi che, seppur congrui e coerenti rispetto agli studi di settore, non hanno alcuna relazione razionale con i prezzi a cui le licenze sono vendute. A Milano, i tassisti dichiarano in media ricavi poco superiori ai 20.000 euro l’anno (al lordo delle spese e dei costi di esercizio) e a Roma di poco inferiori ai 16.000 euro. Però una licenza a Milano costa tra i 150.000 e i 200.000 euro e a Roma poco meno. Non essendo affatto credibile che migliaia di persone sgomitino per lavorare in un settore in cui il reddito netto guadagnato in 15 o 20 anni serve appena, quando va bene, a ripagare il costo dell’investimento, allora è evidente che senza sgombrare il campo da questa menzogna non è possibile garantire una regolazione efficiente, dove l’efficienza non si misura in termini di garanzia del reddito degli erogatori, ma di funzionalità del servizio che essi devono assicurare.
Peraltro, anche per assicurare trasparenza fiscale, molto più delle indagini di polizia tributaria in questo settore sarebbe necessario e forse pure sufficiente garantire un regime di trasparenza amministrativa. Accanto a una menzogna di fatto – i tassisti guadagnano poco, quindi non c’è un problema di offerta e aumentare il numero delle licenze li manderebbe tutti sul lastrico – a presidiare il sistema della rendita c’è infatti anche una ipocrisia, per così dire, di diritto, dissimulata nella forma del religioso rispetto del principio di sussidiarietà.
Né nella legge quadro per il trasporto di persone mediante autoservizi pubblici non di linea (legge 15 gennaio 1992, n. 21), né nelle norme che sono successivamente intervenute per modificare le sue previsioni è “proibito” il rilascio di nuove licenze. Le Regioni possono nella loro programmazione stabilire i criteri di ampliamento dell’offerta e i Comuni darvi attuazione.
Il risultato però è che da decenni le nuove licenze rimangono al palo, perché il potere di condizionamento degli operatori del settore, che sono fortemente politicizzati e hanno dalla loro l’arma intimidatoria della paralisi delle città, ha generalmente la meglio sulle Regioni o sui Comuni o su entrambi. Non esistendo poi per dette amministrazioni alcuna responsabilità, né alcuna sanzione circa i disservizi che nel frattempo si accumulano, i tassisti riescono ad avere la botte piena (un reddito garantito dall’assenza di concorrenza) e la moglie ubriaca (un valore della licenza crescente, grazie alla scarsità delle licenze disponibili).
Di fronte a questa situazione, con i taxi che non si trovano per strada, ma con i rappresentanti dei tassisti che si trovano ovunque serva per interdire qualunque tipo di riforma, la proposta avanzata dal Governo nel decreto licenziato dal Consiglio dei ministri non è un piccolo passo avanti, ma un ulteriore passo indietro verso un modello di cogestione corporativamente “perfetto” dell’autotrasporto pubblico non di linea.
Il decreto infatti si limita a autorizzare i Comuni a rilasciare licenze temporanee aggiuntive ai già titolari di licenza della durata massima di 24 mesi e a semplificare le procedure per la cosiddetta “doppia guida”, anche in questo caso in capo ai già titolari di licenza; infine nei Comuni capoluogo di regione, nelle Città metropolitane e nei Comuni sede di un aeroporto internazionale il decreto prevede che si possano rilasciare fino a un 20% di licenze aggiuntive. Che si possano, si badi, neppure che si debbano. Quasi niente, considerando che si è mantenuto sostanzialmente inalterato il regime discriminatorio previsto per gli Ncc – noleggio con conducente – e si è pure dichiarata una crociata nazionalista contro i servizi innovativi di trasporto a chiamata, come Uber.
Il Governo non ha neppure preso in considerazione la proposta che è stata avanzata dall’Associazione dei Liberali e Democratici Europei e depositata alla Camera da alcuni deputati di Azione e di Italia viva e che cerca un piano di mediazione con i rappresentanti della categoria, recuperando una vecchia idea dell’Istituto Bruno Leoni. Questa proposta non chiede di passare, come gli stessi promotori avrebbero preferito, dal sistema delle licenze a quello delle autorizzazioni, cioè da un mercato con un numero di fornitori del servizio predeterminato a uno pienamente concorrenziale, senza barriere all’entrata e aperto a chiunque, a parità di condizioni economiche (tariffe) e normative (requisiti e regole di servizio). La proposta si limita, anche tenendo conto delle recriminazioni degli attuali titolari per un azzeramento del valore delle licenze a seguito della liberalizzazione, a raddoppiare per legge il numero delle licenze disponibili, riconoscendone un’altra a ogni attuale titolare, a una sola condizione: che essa venga messa in strada, cioè venduta, entro 24 mesi. In questo modo, senza mettere un solo euro di denaro pubblico, il valore patrimoniale delle attuali licenze verrebbe ampiamente preservato, ma sarebbe anche raddoppiata la concorrenzialità del mercato dell’autotrasporto pubblico.
I rappresentanti dei tassisti hanno reagito sdegnati a questa ipotesi chiedendo e ottenendo subito dal Governo l’impegno a impedire il cumulo delle licenze. Insomma, per i don Rodrigo del settore questa liberalizzazione non s’ha da fare e con il decreto messo in campo dal Governo di certo non si farà.
@carmelopalma