di Carmelo Palma
ROMA (Public Policy) – Non molto tempo fa il ministro del Lavoro della Regione di Bruxelles, Bernard Clerfayt, ha giustificato i bassi tassi di occupazione femminile nella capitale belga addebitandone la responsabilità alle “donne italiane, marocchine o turche… e a un modello di famiglia in cui l’uomo lavora e la donna resta a casa per occuparsi dei figli”.
Le sue parole hanno suscitato in Italia reazioni scandalizzate e risentite e sono state giudicate pretestuose e sostanzialmente razziste. Invece, anche se in modo rozzo e moralistico e con generalizzazioni molto approssimative, descrivono un fenomeno che gli stessi numeri dell’occupazione in Italia confermano in modo eclatante.
I dati sulla partecipazione al lavoro delle donne italiane sono tra i più bassi dei paesi Ocse (un po’ meglio del Messico, un po’ peggio della Colombia) e i peggiori dell’Ue. Il tasso di attività (rapporto tra le donne occupate e alla ricerca di una occupazione e il totale della popolazione femminile tra i 15 e i 64 anni) in Italia è di circa il 55%. Quasi una donna su due non lavora, né cerca lavoro.
Nei Paesi Ue in genere questo tasso è di 10-15 punti superiore, ed è più alto anche nei Paesi mediterranei: in Francia è al 70%, in Spagna sfiora il 71%, in Portogallo arriva quasi al 74%. Ha poco senso, quindi, come ha fatto Clerfayt, parlare di modello mediterraneo, perché le differenze tra le due sponde del Mare Nostrum sono comunque enormi: per esempio in Turchia lavora o cerca lavoro poco più di una donna su tre.
Ha inoltre poco senso ritenere che le donne non lavorano “per occuparsi dei figli”. In Italia il tasso di fecondità è in quasi tutte le regioni allineato alla media nazionale e non riflette affatto le fortissime differenze dei tassi di attività e occupazione femminile tra Nord e Sud. In Campania, Puglia, Calabria e Sicilia lavorano infatti mediamente il 30% delle donne, al Nord il doppio. Pur tra tante approssimazioni, Clerfayt ha però detto una verità incontrovertibile: le donne italiane lavorano e cercano lavoro meno di quelle di quasi tutti i Paesi avanzati. Ovviamente questa verità non contiene in sé una interpretazione così semplice e univoca. Che sia così è evidente, perché sia così lo è molto meno.
Contano sicuramente una serie di incentivi e vincoli sociali molto forti: in primo luogo un’economia sommersa, molto diffusa in particolare al Sud, che nasconde forza lavoro non inattiva, ma irregolare e una struttura familiare che riversa sulle componenti femminili le attività domestiche e di cura (in Ue, Italia e Grecia sono i Paesi in cui si registrano le differenze più alte tra i due generi).
È inoltre certo che le scarse possibilità occupazionali – legate sia a livelli di formazione insufficienti, sia a una domanda di lavoro scarsa e residuale – susciti reazioni di sfiducia e inattività. È lo stesso fenomeno che riguarda i cosiddetti NEET, giovani che non studiano e non lavorano. Una interpretazione moralistica di questo fenomeno – le donne e i giovani italiani sono più “fannulloni” di quelli europei – non solo è discutibile, ma è del tutto inutile, perché presuppone una mission impossible. Non servirebbe cambiare gli incentivi e i disincentivi al lavoro, se prima non si cambiasse, una per una, la testa delle italiane e degli italiani. Vaste programme.
Bisognerebbe invece chiedersi più utilmente se a spingere verso l’inattività non possa essere la persuasione, falsa ma politicamente coltivata come una riserva di facile consenso da parte di populisti e sovranisti, che il lavoro non sia un risultato dell’impegno individuale e di una somma di infiniti comportamenti personali di risparmio, investimento, produzione e consumo, ma sia un bene pubblico che non è il mercato a potere produrre in modo equo, bensì lo Stato a dovere garantire in quantità sufficiente per tutti.
Questa falsa credenza, destinata a essere frustrata e a trasformarsi in una richiesta di assistenza generalizzata (“se non mi si dà il lavoro, mi sia dia il reddito…senza lavoro”), ha un effetto psicologicamente e socialmente inabilitante.
Un analogo effetto depressivo sull’offerta di lavoro femminile avrebbe anche la (improbabile) riforma fiscale che dovrebbe, nelle intenzioni del ministro Giorgetti, azzerare la tassazione sulle famiglie con almeno due figli. La proposta, come ha fatto notare il direttore dell’Osservatorio sui conti pubblici Giampaolo Galli, difficilmente avrebbe effetti positivi sulla natalità, perché la propensione a fare figli non aumenta con l’aumentare del reddito e inoltre introdurrebbe una discriminazione negativa sui redditi medio bassi, per i quali nessun risparmio fiscale sarebbe in grado di ripagare le spese legate all’assenza di un vero welfare familiare (asili, tempo pieno nella scuola dell’obbligo, congedi parentali..).
Invece, azzerare le tasse sul ricco stipendio di un papà di due figli spingerebbe probabilmente all’inattività la mamma, con il risultato di ridurre ulteriormente l’offerta di lavoro femminile e di porre paradossalmente a carico delle donne che lavorano parte del reddito delle famiglie in cui le donne non lavorano.
Va fatta infine una considerazione sulla possibile (probabile?) relazione tra la bassa partecipazione al lavoro delle donne e uno scarso apprezzamento della rilevanza dell’autonomia economica come condizione di effettiva autonomia personale, anche all’interno della famiglia. In questo caso il ritardo che l’Italia ha accumulato sul versante occupazionale sarebbe un effetto di un ritardo non ancora recuperato dal punto di vista culturale.
Tutto questo porta a concludere che per ragionare sul (non) lavoro femminile in Italia occorra in primo luogo interrogarsi sugli alibi e i pregiudizi che disarmano il possibile protagonismo economico delle donne.
@carmelopalma