di Carmelo Palma
ROMA (Public Policy) – La scorsa settimana, durante l’esame in commissione Affari costituzionali alla Camera del decreto Elezioni è stato approvato un emendamento (6.016 – Magi, Costa) che amplia significativamente il numero dei partiti esonerati dall’obbligo di raccolta firme per la presentazione delle liste alle prossime elezioni politiche.
Anche questa novella, come moltissime altre in passato, non serve a ripristinare un principio di uguaglianza nei requisiti di partecipazione democratica dei partiti, ma si limita a ricavare ulteriori “nicchie di rendita” all’interno di una legge elettorale discriminatoria, che istituisce diritti differenziati tra forze politiche presenti e non presenti in Parlamento, e introduce per queste ultime soglie di accesso alla competizione elettorale quasi insormontabili.
Esaminiamo la questione nel dettaglio. In base alle modifiche introdotte dal cosiddetto Rosatellum (legge 165/2017), per presentarsi alle elezioni per il rinnovo di Camera e Senato le forze politiche, che sono costituite in gruppi parlamentari in entrambe le camere, all’inizio della legislatura in corso al momento della convocazione dei comizi elettorali, sono esonerate dall’obbligo della raccolta firme.
Tutte le altre forze politiche devono raccogliere tra le 1500 e le 2000 firme in ciascun collegio plurinominale. I collegi plurinominali sono 49 per la Camera e 26 per il Senato. Il numero di firme complessivo è quindi per la Camera di 73.500 e per il Senato di 39.000. Pd, M5s, Lega, FdI e FI sono dunque, in base alla disciplina ordinaria, i soli partiti esonerati dalla raccolta firme, in quanto sono gli unici che, dal primo giorno della XVIII legislatura, erano costituiti in gruppo in entrambe le Camere.
La raccolta delle firme è un adempimento gravoso, perché per le elezioni, a differenza dei referendum, può essere compiuto solo in presenza e su moduli cartacei, e non a distanza, in modalità telematica e con identità digitale. Ciascuna firma va autenticata, nel momento in cui viene apposta, da un pubblico ufficiale (nessuno dei quali, però, tenuto a prestare questo servizio, tra cui spiccano consiglieri e amministratori degli enti locali) e certificata con l’allegazione del documento di iscrizione nelle liste elettorali rilasciato dal comune di residenza del firmatario. Inoltre, il numero delle firme richieste in Italia è assolutamente abnorme rispetto a quello necessario nelle principali democrazie europee.
In Francia non è richiesta alcuna firma. Nel Regno Unito, poco più di 6000 firme per 46 milioni di elettori. Circa quindici volte meno che in Italia. Il rapporto tra firme richieste e elettori in Italia è di circa il 2,2 per mille, oltre di doppio di quello della Spagna, dove l’esonero dalla raccolta firme è riconosciuto anche ai partiti con un solo eletto in Parlamento e della Germania, dove le firme raccolte non vanno autenticate e quindi possono essere raccolte dovunque e da chiunque.
Il Tribunale di Roma su questa base, a partire da un ricorso presentato da +Europa, ha sollevato nel settembre del 2020 in via incidentale una questione di costituzionalità davanti alla Consulta, considerando il combinato disposto del numero delle firme da raccogliere, dell’elevato numero di ambiti territoriali in cui queste devono sono distribuite (i collegi plurinominali) e dell’esiguità dei tempi disponibili, che tecnicamente sono limitatissimi, visto che il deposito del contrassegno dei partiti non può essere effettuato prima delle ore 8 del quarantaquattresimo giorno antecedente le elezioni (art. 14-bis del d.P.R. n. 361 del 1957) e le firme corredate dalle autenticazioni e certificazioni elettorali devono essere presentate “dalle ore 8 del trentacinquesimo giorno alle ore 20 del trentaquattresimo giorno antecedenti quello della votazione” (art. 20 del d.P.R. n. 361 del 1957).
Nell’ordinanza di remissione peraltro è stato proprio il Tribunale di Roma (giudice Carmen Bifano) a evidenziare come “nell’arco dei 12 anni che hanno preceduto le ultime elezioni del 2018 per il rinnovo del Parlamento italiano, ed in occasione delle ultime 4 elezioni – del 2018, 2013, 2008 e 2006 – … sono state adottate norme speciali… che hanno sensibilmente ridotto il numero delle sottoscrizioni necessario per candidarsi in base al testo del d.P.R. n. 361/1957 in quel momento vigente, riducendolo fino ad un quarto per le elezioni politiche del 2018 e del 2013, ovvero hanno ampliato l’ambito soggettivo dell’esonero dalla relativa raccolta, quasi eliminandolo per le elezioni politiche del 2008”.
In altra parte della stessa ordinanza si legge inoltre: “Visto che il consolidamento della prassi ultradecennale dell’attenuazione delle regole di accesso alle elezioni politiche solo in prossimità delle stesse manifesta storicamente la consapevolezza della concreta impraticabilità, ovvero della vessatorietà sproporzionata ed irragionevole della disciplina altrimenti applicabile per tutte le formazioni politiche che alla sua stessa stregua non ne siano esonerate, risulta altresì storicamente dimostrato che la sopra segnalata distorsione delle legittime finalità della disciplina vigente relativa alla raccolta delle sottoscrizioni e alla relativa esenzione, nonché la storica incertezza in ordine al suo ambito soggettivo di applicazione e al contenuto oggettivo degli oneri che essa impone, non ne costituiscono un mero inconveniente di fatto, ma un effetto cui tale disciplina appare, viceversa, sistematicamente preordinata”.
Nella sostanza, è proprio la frequenza e la quantità delle deroghe a dimostrare che presentarsi alle elezioni sulla base delle regole “ordinarie” è impossibile, se non per pochissimi partiti e che l’esclusione degli altri non è una conseguenza inintenzionale, ma un obiettivo esplicito di questa disciplina. Per questo le norme sull’obbligo della raccolta firme e sui relativi esoneri erano da considerarsi incostituzionali: perché le norme speciali e le deroghe introdotte non correggono, bensì aggravano il carattere discriminatorio delle soglie di accesso. Non rendono i competitori più uguali, semplicemente ampliano la platea dei “più uguali degli altri”.
La Consulta ha giudicato infondata la questione di costituzionalità ritenendo che non sia manifestamente irragionevole, né lesiva del diritto di elettorato attivo e passivo, la determinazione di un numero di firme elevato su di una materia affidata alla discrezionalità del legislatore, il quale avrebbe legittimamente deciso di esigere dai partiti e dai gruppi politici come requisito di partecipazione elettorale una prova di rappresentatività (il numero delle firme raccolte) particolarmente onerosa.
In questo, peraltro, la Corte ha continuato a non vedere, come anche il legislatore, la natura deliberatamente ostruzionistica di una normativa che subordina la possibilità concreta di raccogliere le firme per un partito alla disponibilità concreta di pubblici ufficiali di altri partiti, cioè essenzialmente alle decine di migliaia di sindaci, assessori e consiglieri comunali, che in grande maggioranza non danno ovviamente la disponibilità a autenticare firme per partiti concorrenti, cioè di fatto – ripetiamo – a partecipare personalmente a iniziative e attività di gruppi politici che considerano avversari.
In ogni caso, se le procedure di raccolta firme rendono improba la presentazione di liste prive dell’esonero, un altro dispositivo della legge elettorale ne rende di fatto impraticabile l’alleanza con le liste esonerate, ai fini della costituzione di una coalizione elettorale comune.
In base all’art. 18-bis, comma 1, del d.P.R. n. 361 del 1957 la dichiarazione di presentazione delle liste di candidati per l’attribuzione dei seggi nel collegio plurinominale – cioè concretamente il modulo su cui si raccolgono le firme degli elettori per i partiti non esonerati – deve indicare “i candidati della lista nei collegi uninominali compresi nel collegio plurinominale”. Teoricamente, ciascun partito può iniziare a raccogliere le firme fino a sei mesi prima della data del deposito, in base a una norma – art. 14, comma 3, della legge 53/1990 – approvata quasi trent’anni prima dell’attuale legge elettorale, che ha legato le candidature in liste plurinominali (cioè di partito) a quelle nei collegi uninominali (potenzialmente di coalizione). Ma di fatto le coalizioni non rilevano giuridicamente – cioè non esistono se non sul piano degli impegni tra i partiti, non della normativa elettorale – se non dal quarantaquattresimo giorno precedente il voto, come spiegato in precedenza. Inoltre i partiti che usufruiscono dell’esonero dispongono di tutto il tempo che vogliono e decidono regolarmente le candidature, dopo lotte durissime, in zona Cesarini.
Alle scorse elezioni, le norme sugli esoneri dalla raccolta firme erano assai più generose, perché la stessa 165/2017 (cosiddetto Rosatellum), nelle disposizioni transitorie dell’art. 6, ha esteso, in sede di prima applicazione, l’esonero a tutti i partiti costituiti in gruppo parlamentare anche in una sola camera alla data del 15/04/2017. La famosa eccezione alla regola che diventa essa stessa regola, così caratteristica della storia elettorale italiana. Questo ha comportato che sia il centro-destra, sia il centro-sinistra si siano presentati alle elezioni del 2018 con coalizioni di quattro liste (centrodestra: FI, Lega, FdI, Noi con l’Italia; centrosinistra: Pd, +Europa/Centro democratico, Civica popolare, Insieme) senza dovere raccogliere alcuna firma, ma utilizzando tutti gli esoneri disponibili in Parlamento e che non si sia registrata alcuna coalizione tra una lista esonerata dalla raccolta firme e una non esonerata.
Le uniche due liste che sono riuscite a raccogliere le firme per presentarsi in tutte le circoscrizioni nazionali per Camera e Senato, Potere al Popolo e CasaPound Italia, correvano infatti autonomamente sia per il proporzionale che per il maggioritario.
Fatto questo quadro complessivo, diventa chiaro ciò a cui serve l’emendamento approvato in commissione, che in settimana l’Assemblea di Montecitorio potrebbe confermare. Che cosa dice? Dice che l’esonero dalla raccolta firme, che oggi vale solo per le cinque forze politiche prima ricordate (Pd, M5s, FI, Lega e FdI) si estende “anche ai partiti o gruppi politici costituiti in gruppo parlamentare in almeno una delle due Camere al 31 dicembre 2021” (cioè Leu, Italia Viva e Coraggio Italia), o “che abbiano presentato candidature con proprio contrassegno alle ultime elezioni della Camera dei deputati o alle ultime elezioni dei membri del Parlamento europeo spettanti all’Italia in almeno due terzi delle circoscrizioni e abbiano ottenuto almeno un seggio assegnato in ragione proporzionale” (cioè +Europa-Centro Democratico), o che “abbiano concorso alla determinazione della cifra elettorale nazionale di coalizione avendo conseguito, sul piano nazionale, un numero di voti validi superiore all’1 per cento del totale” (cioè Noi con l’Italia).
Il saldo è di tre esenzioni in più per le forze di centrosinistra e due per quelle di centrodestra. Quanto basta per allargare il presunto “campo largo” di Pd e M5s (al netto delle sue divisioni interne, della possibile scissione grillina, e della riluttanza di alcuni potenziali alleati) a liste che, se avessero dovuto raccogliere le firme, di fatto non si sarebbero, come abbiamo spiegato, potute coalizzare. Analogo ragionamento vale anche a destra per i gruppi di Toti e di Lupi. La legge elettorale rimane invece nel suo complesso un sistema di figli e figliastri, anche se varia il numero degli uni o degli altri.
Ovviamente qualunque riforma – non si sta parlando, si badi, del sistema di voto, ma dei requisiti di accesso alla competizione elettorale – dovrebbe mirare alla totale uguaglianza delle condizioni di partenza, senza differenza tra partiti rappresentati e non rappresentati nel Parlamento uscente. Occorrerebbe fissare un numero di firme non eccessivo (cioè in linea con la media europea), non imporre modalità di raccolta che consentano il boicottaggio di alcuni concorrenti, autorizzare la sottoscrizione digitale e non riversare sui gruppi politici oneri che appartengono alla pubblica amministrazione, come la verifica del diritto di elettorato dei firmatari. Tutte cose molto ragionevoli, ma a quanto pare, di fatto, impossibili. Mentre è sempre possibile estendere il privilegio dell’esenzione a qualche “amico” nell’imminenza delle elezioni. (Public Policy)
@carmelopalma