ROMA (Public Policy) – (di Serena Sileoni) Il blocco odierno dei TIR carichi di generi alimentari al Brennero da parte degli iscritti di Coldiretti è stata una messa in scena offensiva, oltre che della libertà di circolazione delle merci, anche delle ragioni di consumatori. Coldiretti sostiene di aver agito esasperata dall’ingresso su territorio italiano di merci marcate Made in Italy ma che di italiano hanno solo la produzione finale e non l’origine degli ingredienti principali.
Ciò indurrebbe in inganno il consumatore che comprerebbe un prodotto fatto in Italia (Made in Italy, appunto) ma con materie prime coltivate o allevate all’estero, in paesi con un differente standard di controllo rispetto al nostro. La battaglia di Coldiretti avrebbe quindi per obiettivo quello di imporre una certificazione non solo sul luogo di produzione degli alimenti, ma anche sul luogo di origine dei loro ingredienti principali, per ora limitato ad alcuni prodotti.
Una battaglia, quella odierna, condotta sullo sfondo di due scenari. Il primo è quello della commercializzazione di merci contraffatte, che non meritano il riconoscimento del Made in Italy e quindi violano le norme esistenti. L’inganno, in questo caso, è legislativamente punito dalle norme sulla contraffazione. Il secondo scenario, invece, è quello di generi alimentari prodotti in Italia ma con materie prime straniere, che possono beneficiare del marchio Made in Italy. Con l’aiuto di un dizionario, anche tascabile, si può agevolmente verificare che Made in Italy vuol dire fatto in Italia, non anche con prodotti coltivati o allevati in Italia.
Se questo si vuole, occorrono nuove regole e un nuovo e diverso marchio, ma non si può accusare di frode chi lavora in Italia il frutto di terre straniere vendendolo come prodotto in Italia, poiché… così in effetti è. E veniamo quindi al nocciolo del problema. Coldiretti, accusando di frode i produttori di beni alimentari che sfruttano il marchio Made in Italy pur usando ingredienti non italiani, mira in realtà a fare pressione affinché il governo – quello stesso governo il cui ministro dell’agricoltura oggi sfilava accanto agli iscritti di Coldiretti – introduca norme più restrittive sulla tracciabilità degli alimenti e una sorta di etichettatura per la provenienza delle materie prime.
Le norme europee sulla protezione dei prodotti alimentari (reg.(UE) 1169/2011) impongono alcune indicazioni obbligatorie – come l’elenco degli ingredienti, il paese di origine per alcuni prodotti come carne o latte, la data di scadenza e le condizioni di impiego e conservazione – ritenute sufficienti a garantire la sicurezza alimentare dei prodotti e quindi la tutela del consumatore. Eventuali informazioni addizionali sono considerate, da questo punto di vista essenziale della sicurezza e dell’igiene alimentare, ultronee.
Certo esse possono essere importanti da altri punti di vista, come per esempio il livello di eccellenza delle materie prime, posto che le nocciole piemontesi non sono come quelle polacche o i pistacchi di Bronte come quelli spagnoli. Ma si tratta di informazioni relative alle preferenze di qualità, non alla sicurezza alimentare. Se Coldiretti ha in animo, come è lecito che sia, di tutelare gli interessi dei produttori agricoli italiani sulla base di considerazioni qualitative dei prodotti, non occorre intervenire sulle norme, già esaustive, per l’etichettatura e la sicurezza alimentare.
Già oggi l’istituto per la tutela dei produttori italiani certifica con il marchio 100% made in Italy non solo il luogo di produzione, ma anche l’origine italiana e la qualità dei prodotti, secondo norme di tipo anche autoregolativo che consentono, a chiunque lo voglia, di essere riconosciuti come marchio italiano pure nell’origine dei prodotti. Le informazioni che il consumatore oggi ha su un prodotto sono tante e precise. occorre leggerle, ma il consumatore deve essere considerato per quello che è: un soggetto mediamente capace di leggere, comparare e fare scelte di acquisto ponderate, preferendo ora la fattura ora il prezzo ora altre variabili, sulla base di scelte e preferenze che sono in primo luogo sue e che spesso poco hanno a che fare con astratti criteri di qualità.
Nulla, per inciso, impedirebbe a Coldiretti di inventare strumenti suoi per “certificare” e approvare particolari alimenti e produttori: ma si tratterebbe di una certificazione soggetta al verdetto ultimo del consumatore, uno strumento che si propone a noi tutti per orientarci sul mercato (tipo Guida Michelin o tre bicchieri del Gambero Rosso), e che non viene imperativamente calato dall’alto. Forse allora la protesta della Coldiretti tradisce il timore della concorrenza straniera ad armi pari e il tentativo di gareggiare ad armi impari, sotto la protezione di un legislatore paternalista o, meglio, protezionista, che non la premura per la sicurezza alimentare degli italiani. (Public Policy)
(pubblicato su LeoniBlog)