di Lorenzo Castellani* (pubblicato su LUISS Open)
ROMA (Public Policy) – In una recente pubblicazione ho definito come “tecnopopulismo” il regime politico verso cui sembra muoversi gran parte delle democrazie occidentali, intendendo con questa espressione un’organizzazione del potere politico caratterizzata da interazioni fra capitalismo globale, istituzioni tecnocratiche sovranazionali e nuovi movimenti politici polarizzati/populisti.
È, ovviamente, una generalizzazione che appare dettata più dall’osservazione della realtà che da una compiuta opera di sistematizzazione teorica. Deriva da una lettura contemporanea di Wilfredo Pareto e, in particolare, del saggio da lui scritto nel 1927 e intitolato Trasformazione della democrazia in cui il pensatore elitista individuava una tensione tra “forze plutocratiche” e “politica demagogica” che mostra alcune affinità con il nuovo regime politico del ventunesimo secolo caratterizzato dal rapporto tra tecnocrazia e populismo.
Da qui l’idea del tecnopopulismo come tensione e compenetrazione tra tecnocrazia sovranazionale e politica democratica o, per usare i termini del politologo Alasdair Roberts, tra la “logica della disciplina”, imposta dal capitalismo globale integrato e le sue istituzioni, e la “logica della democrazia”, cioè gli effetti disordinanti della politica.
Questo rapporto tra tecnocrazia e populismo pare svolgersi a due livelli. Da un lato, infatti, si determina una tensione tra il mondo delle istituzioni sovranazionali non direttamente elettive, come l’Unione Europea e i migliaia di regolatori globali, e quello dei nuovi movimenti politici polarizzati, i quali sostengono di voler riformare quel mondo in nome del recupero della sovranità e allentamento dei vincoli internazionali. Dall’altro, a livello nazionale, i populisti al governo hanno dimostrato di non poter vivere senza la collaborazione con tecnici e tecnostrutture preesistenti. I neofiti della politica populista si sono perfettamente integrati con competenze d’altro profilo.
Un risultato che mostra di tutta evidenza la crisi della politica “come professione” e della rappresentanza parlamentare. Il tecnico e il neofita, selezionato con metodi quasi sempre approssimabili al casting televisivo o al sorteggio, sostituiscono il politico. Una dinamica, che seppure con specificità e tradizioni diverse, sembra essere in svolgimento in tutto il mondo occidentale e che, come ha sottolineato recentemente Clay Fuller, rischia di portarci a forme di autoritarismo liberale.
Viene da chiedersi come si è arrivati a questo punto.
COME SIAMO ARRIVATI AL TECNOPOPULISMO
La storia, come sempre, viene in soccorso e dobbiamo andare almeno cinquant’anni indietro partendo dalla fine degli anni sessanta per comprendere le origini dell’attuale regime politico. È in quel momento che i Trente Glorieuses, i tre decenni di formidabile sviluppo economico dopo la Seconda Guerra mondiale, hanno iniziato a scricchiolare.
Si originano, in questo periodo, due pressioni che sono espressione di un “liberalismo biforcuto”: una che domanda maggiore democrazia, partecipazione, diritti e l’altra che domanda espansione economica, concorrenza e disciplina attraverso la nuova architettura del capitalismo globale.
Si è cercato così di ricostruire un equilibrio tra le esigenze di emancipazione democratica, attraverso i referendum e il sistema mediatico, e le esigenze del capitalismo globale, attraverso un processo di depoliticizzazione delle democrazie che ha originato una nuova e più forte tecnocrazia sovranazionale.
Dunque se da un lato la politica perdeva potere sull’economia e sulle regole globalizzate, dall’altro il suo potere democratico si rafforzava poiché continuava a brandire promesse d’emancipazione e partecipazione. Un sistema che si è presto rivelato precario per l’enormità delle aspettative sollevate negli elettori e che, infatti, ha iniziato a sgretolarsi dopo il 2008.
Negli ultimi dieci anni, con l’avvento della crisi economica, delle nuove tecnologie dell’informazione e dei cambiamenti culturali nella società, questo equilibrio tra tecnocrazia e democrazia ha mostrato il fianco. L’elemento democratico, prima addomesticato dalle regole sovranazionali, è andato fuori controllo facendo riemergere quel politico schmittiano che pareva essere sopito per sempre dentro le società occidentali. Tuttavia, la tecnocrazia nazionale e sovranazionale appare ancora capacissima, a livello politico, se non più di addomesticare quantomeno di influenzare i populisti al governo. Tanto che nessun partito o leader dei nuovi partiti è ancora riuscito a formulare una teoria o, quantomeno, una proposta politica capace di evadere dalla presenza al governo degli esperti. Nell’era della complessità tecnocrazia e populismo mostrano un atteggiamento ambiguo: si affrontano, certo, ma si compenetrano anche. Perché è dalla stessa storia che nascono come due risposte alle medesime trasformazioni. Per questo motivo il futuro si giocherà sulla modulazione di questo rapporto poiché non spariranno né i rigurgiti democratici del politico né, tantomeno, la professionalizzazione di corpi burocratici, nazionali e sovranazionali, chiamati a rappresentare e gestire una pluralità di interessi costituiti.
CONSIGLI DI LETTURA PER APPROFONDIRE
Castellani L. e Rico A., La fine della politica? Tecnocrazia, populismo, multiculturalismo, Historica, 2017;
Castellani L., L’era del tecnopopulismo, Le Grand Continent, Parigi, disponibile qui https://legrandcontinent.eu/2018/03/16/lera-del-tecnopopulismo/
Fuller C., The Threat of Authoritarian Liberalism, disponibile qui: https://quillette.com/2018/06/09/threat-authoritarian-liberalism/
Pareto V., Trasformazione della democrazia, Editori Riuniti, Milano, 1999;
Roberts A., The Logic of Discipline: Global Capitalism and the Architecture of Government, Oxford, OUP, 2011.
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*laureato in Giurisprudenza alla LUISS, ha un PhD in Scienza Politica presso l’IMT di Lucca ed è Teaching Assistant in European Institutional History alla LUISS