Etica delle intenzioni e razionalità nel dibattito pubblico

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di Pietro Monsurrò

ROMA (Public Policy) – Il dibattito pubblico tende al moralismo e alla polarizzazione, ma raramente si interessa ai numeri e alla realtà: si prendono posizioni “pure” perché creano l’illusione di essere “dalla parte giusta della storia”, ma senza bisogno di responsabilità morale, non diversamente da “ho la coscienza pulita: non l’ho mai usata” di Lupo Alberto. Ogni battaglia diventa quindi non un’occasione per capire e risolvere problemi, ma per sentirsi più buoni e più giusti. Quest’ultimo aspetto è interessante: il moralismo irragionevole raramente si accompagna ad un interesse per la comprensione dei problemi, e a volte rappresenta un ostacolo alla loro soluzione.

Facciamo pochi esempi. L’aborto non è un dibattito su quando un grumo di cellule diventa una persona dotata di diritti, ma una guerra tra chi ritiene che gli altri siano degli infanticidi senza scrupoli, e chi ritiene che gli altri non rispettino i diritti delle donne. La guerra in Ucraina non è l’occasione per capire come dissuadere la Russia dall’attaccare altri paesi e come persuaderla ad abbandonare politiche aggressive: è un’epica battaglia in cui in gioco non c’è il controllo di un paio di regioni ucraine, l’indipendenza dell’Ucraina, la sicurezza del fronte settentrionale della NATO, ma l’esistenza stessa della Russia come stato, come se questo obiettivo fosse realizzabile, dando per scontato che sia auspicabile, e ovviamente “etsi nukes non daretur”, come se le armi nucleari non esistessero. Valutare la fattibilità dei fini è del resto un processo noioso, mentre abbandonarsi a fantasie irrealizzabili dà più soddisfazioni, anche al costo di non risolvere i problemi, o addirittura di ingigantirli. Quanti di coloro che discettano di transizione energetica si sono premurati di studiarne costi, benefici, rischi, tempi, etc.? Roba da tecnici, da ingegneri: il fine del dibattito non è capire, è sentirsi buoni e giusti propugnando posizioni ideologiche preconfezionate. Anche al costo di arricchire la Russia, di riaccendere centrali a carbone, di dipendere da materie prime cinesi, di perdere posti di lavoro, di soffrire di blackout, e magari di rendere le automobili un lusso per pochi.

Di esempi se ne potrebbero fare parecchi: di norma non si parla di conseguenze, ma di intenzioni; non di mezzi concreti, ma di fini astratti. Molti adottano infatti l’etica delle intenzioni, che dà grandi soddisfazioni psicologiche pur senza avere rilevanza pratica, anziché l’etica delle conseguenze, che si confronta con la realtà e cerca di far quadrare i conti: è noioso e anche prosaico parlare di costi e benefici, di compatibilità di fini e mezzi, delle conseguenze delle azioni. Meglio il proclama, lo slogan, l’epica e illusoria battaglia tra Bene e Male, ovviamente da vivere da spettatori, come al cinema, altrimenti la magia scompare.

Viviamo in un mondo infantile: il che è comprensibile in politica, dove le azioni non corrispondono mai a conseguenze, perché il singolo voto del singolo elettore e la singola opinione espressa dal singolo cittadino sono irrilevanti per gli esiti finali. Si tratta di un caso di irrazionalità razionale: si sceglie di non ragionare da adulti per trarre benefici psicologici dalle proprie fantasie, perché essere irrazionali non ha alcun costo, mentre essere razionali non porta alcun beneficio.

L’irrazionalità razionale si ha quando la realtà dei fatti viene trascurata perché non dipende dalle nostre azioni: ciò che si scrive sui social e ciò che si sceglie alle elezioni non influenza mai la storia, perché c’è una possibilità su infinite di essere “l’elettore mediano” che decide l’esito. Informarsi, pensare, riflettere, valutare richiede tempo e risorse, e soprattutto calma e raziocinio: il costo è evidente, ma i benefici sono nulli, perché qualunque cosa facciamo non influenzerà gli eventi. La politica crea un sistema di incentivi infantilizzante.

All’infantilismo etico delle intenzioni si accompagna spesso la caccia alle streghe, l’arroganza morale, la ricerca di colpevoli: perché se si propongono cose impossibili e che quindi non si realizzano, deve essere sicuramente colpa di qualcun altro. Accettare che siano impossibili minerebbe i benefici psicologici dell’irrazionalità: ciò da un lato assicura che la propria visione del mondo non si infranga contro il muro della realtà, dall’altro fornisce l’illusione cognitiva di stare dalla parte dei buoni, senza dover fare nulla di meritorio. Anche questo processo contribuisce alla polarizzazione della politica, perché invece di valutare costi e benefici si crea una realtà virtuale dove tutto è chiaro, semplice, autoevidente, ma solo per i membri della propria tribù: è necessario rendersi incapaci di comprendere l’altro, altrimenti il castello di carte collassa su sé stesso. Unico problema: tutto ciò non è reale, e spesso anzi crea problemi reali, o impedisce di risolverli. Le scelte sono sempre questione di calcolo, e il senso di superiorità morale non rientra nei parametri oggettivi da valutare nel decidere le strategie migliori. O almeno non dovrebbe rientrarvi, tra adulti.

Non sempre l’astrattismo etico delle buone intenzioni è irrilevante: a volte consente di fare un passo in più, anche se alla cieca, nella giusta direzione. Non sempre i cambiamenti sono graduali, e a volte basta una picconata per fare l’ultimo passo: la fine repentina del segregazionismo nel Sud degli Stati Uniti, negli anni ’60, ne è un esempio. Se si pongono obiettivi graduali, realistici, e sostenibili, se è frutto non solo di vuota convinzione morale ma di studio e analisi, l’utopia può fungere da stella polare: può dare coraggio e spingere nella giusta direzione. Ma è la realtà che deve valutare i risultati, e senza buone conseguenze le buone intenzioni sono inutili, e spesso dannose. L’utopia non è un male se indica la fine di una lunga strada: è un male se impedisce di vedere dove si mettono i piedi, ostacola la comprensione reciproca, e crea l’illusione che la si possa realizzare perfettamente, senza compromessi. (Public Policy)

@pietrom79