Eutanasia a metà del guado. La Consulta e il fine vita

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di Carmelo Palma

ROMA (Public Policy) – C’è una ragione per cui la nuova sentenza della Corte costituzionale in materia di fine vita ha fatto molto meno rumore e suscitato molto meno interesse di quella, che cinque anni fa sembrò aprire la strada a una piena legalizzazione dell’eutanasia.

La ragione è che questa sentenza né va avanti, né torna indietro, ma cristallizza la giurisprudenza sul tema. Infatti, pur ribadendo l’ormai ricorrente e inutile appello al legislatore per una disciplina organica della materia, che contemperi il principio del diritto alla vita con quello di libertà e autodeterminazione, i giudici delle leggi nelle more vincolano le pratiche eutanasiche ammissibili alla sussistenza di un complesso di presupposti che, più che apparire norme di garanzia, sembrano ostacoli burocraticamente frapposti al libero esercizio della volontà dei malati.

Ad aprire la strada a questa strana e condizionata forma di eutanasia all’italiana fu l’ormai famosa sentenza “Cappato/Dj Fabo” (n. 242 del 2019), con la quale la Corte costituzionale, in un giudizio su una questione di legittimità costituzionale sollevata dalla Corte d’assise di Milano, che doveva giudicare Marco Cappato per avere aiutato Fabiano Antoniani ad andare a “suicidarsi” (sia detto tra moltissime virgolette) in Svizzera, stabilì “l’illegittimità costituzionale dell’art. 580 del codice penale, nella parte in cui non esclude la punibilità di chi, con le modalità previste dagli artt. 1 e 2 della legge 22 dicembre 2017, n. 219 (Norme in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento) … agevola l’esecuzione del proposito di suicidio, autonomamente e liberamente formatosi, di una persona tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale e affetta da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche o psicologiche che ella reputa intollerabili, ma pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli”.

Nella sostanza la Corte non aveva stabilito il diritto all’eutanasia dei malati gravemente sofferenti e affetti da patologie irreversibili, né aveva quindi rilevato l’incostituzionalità del reato di “aiuto al suicidio”, laddove si tratti del suicidio assistito di chi versa in dette condizioni. Si era limitata a ritenere irragionevole che i pazienti i quali, in base alla legge 219 del 2017 (sulle dichiarazioni anticipate di trattamento) e conformemente all’articolo 32, secondo comma, della Costituzione possono decidere di rifiutare un trattamento di sostegno vitale, dalla cui sospensione discende direttamente la morte, non possano esercitare questo stesso diritto accedendo direttamente al suicidio assistito, senza prolungare con maggiori sofferenze il tempo del trapasso.

Su questa posizione la Corte è rimasta sostanzialmente ferma anche con la sentenza dello scorso 18 luglio (n. 35 del 2024), pronunciata sulla questione di legittimità costituzionale sollevata dal giudice per le indagini preliminari di Firenze, che doveva decidere se rinviare o meno a giudizio tre militanti dell’Associazione Luca Coscioni – Marco Cappato, Chiara Lalli e Felicetta Maltese – che nel 2022 accompagnarono a morire in Svizzera con il suicidio assistito un malato di sclerosi multipla, che era sì affetto da una malattia irreversibile e causa di forti sofferenze, ma non era sottoposto a trattamenti di sostegno vitale.

Se il GIP di Firenze chiedeva di fatto alla Consulta di cancellare questa condizione d’accesso al suicidio assistito, ritenendola discriminatoria, la Consulta ha ribadito di non potere riconoscere, nell’attuale quadro legislativo e costituzionale, il diritto a morire che come semplice estensione logico-giuridica del diritto a lasciarsi morire rifiutando un trattamento di sostegno vitale.

Tutto quello che la Consulta ha concesso è stata un’estensione della nozione di trattamento di sostegno vitale, concedendo che questo non consista solo nella cosiddetta dipendenza dalle macchine (ad esempio: la ventilazione, idratazione e alimentazione artificiale), ma anche in procedure quali “l’evacuazione manuale dell’intestino del paziente, l’inserimento di cateteri urinari o l’aspirazione del muco dalle vie bronchiali” che sono “in concreto necessarie ad assicurare l’espletamento di funzioni vitali del paziente, al punto che la loro omissione o interruzione determinerebbe prevedibilmente la morte del paziente in un breve lasso di tempo” e che quindi “dovranno certamente essere considerate quali trattamenti di sostegno vitale”.

In questo modo, la Corte offre una comoda exit strategy al giudice rimettente per prosciogliere gli indagati e autorizza un’estensione della casistica dei trattamenti di sostegno vitale, che potrà essere utilizzata da altri giudici in casi analoghi, ma che difficilmente convincerà le aziende sanitarie, titolari del riconoscimento del diritto d’accesso al suicidio assistito, che, per inerzia o ragioni difensive, continueranno a dare una interpretazione molto restrittiva di questo requisito, come già hanno fatto in passato, negando ad esempio l’accesso al suicidio assistito a una paziente oncologica interamente dipendente dall’ossigeno.

Ad aiutare le Asl in questa opera di sbarramento è intervenuto anche un recente parere del Comitato Nazionale di Bioetica, che, diversamente dalla Corte costituzionale, circoscrive  i trattamenti di sostegno vitale a quelli interamente “sostitutivi di funzioni vitali” e non di semplice “cura di bisogni vitali”, che impiegano “tecnologie avanzate e procedure specialistiche”, e la cui sospensione “provoca conseguenze fatali immediate”.

In ogni caso, dopo questa nuova sentenza della Consulta possiamo dire che la riflessione bioetica e la disciplina giuridica in materia di eutanasia sono rimaste a metà del guado e l’assenza di una disciplina legislativa organica rende di fatto inaccessibile, visto il blocco delle autorità sanitarie, anche l’esercizio concreto dei limitati diritti riconosciuti dalla Corte costituzionale. Peraltro, per quanto si possa teoricamente estendere la nozione di trattamento di sostegno vitale, essa sarà sempre tale da escludere migliaia di malati terminali, in particolare oncologici, che, pur a fronte di prognosi di morte a breve termine e dipendenza da cure palliative, spesso non soddisfano il requisito della dipendenza da questo, a quanto pare inevitabile, requisito di accesso il suicidio assistito: essere, come si dice, “attaccati alle macchine”. (Public Policy)

@carmelopalma