Il Giappone, dalla “diplomazia da karaoke” a pivot nell’Indo-Pacifico 

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Il premier nipponico Suga è stato il primo leader mondiale a essere ricevuto dal
presidente americano Biden. Non è un caso. Tra vitalità commerciale e contenimento
anti-Cina, Tokyo negli anni ha assunto un ruolo propulsivo nell’ordine internazionale
liberale. Ora pure l’Europa se n’è accorta.

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di Marco Valerio Lo Prete

ROMA (Public Policy) – Nelle cancellerie di tutto il mondo, è durata settimane l’attesa per comprendere in quale direzione si sarebbe concretamente indirizzato il nuovo corso della politica estera americana dopo i quattro anni – per alcuni aspetti imprevedibili – dell’Amministrazione Trump. In questo sforzo interpretativo, dunque, del presidente Joe Biden sono state riesaminate le antiche posizioni da senatore di lungo corso del Partito democratico (1973-2009) e da vicepresidente dell’epoca Obama (2009-2017), poi sono stati analizzati curriculum e sensibilità dei suoi principali collaboratori (dal segretario di Stato Antony Blinken al consigliere incaricato per l’Indo-Pacifico Kurt Campbell), infine sono stati soppesati i passi iniziali della sua diplomazia.

Le priorità diplomatiche di Biden: il Quad e il premier Suga 

Così non è sfuggito ai più che il primo vertice internazionale al quale Biden abbia scelto di partecipare sia stato il “Quadrilateral Security Dialogue” dello scorso 12 marzo. Biden, in teleconferenza a causa della pandemia, si è confrontato in quell’occasione col premier giapponese Yoshihide Suga, col primo ministro indiano Narendra Modi e con quello australiano Scott Morrison. Il Quad, che qualcuno ha etichettato come “la Nato asiatica”, è un gruppo per il momento decisamente più lasco dell’Alleanza Atlantica, ma non privo di chiari obiettivi geopolitici. Dal rafforzamento delle catene di approvvigionamento della manifattura alla produzione di vaccini, passando per la tutela del diritto internazionale nelle acque dell’Indo-Pacifico, a nessuno sfugge il ruolo di “contrappeso” del Quad nell’area rispetto alla Repubblica popolare cinese.

In continuità con questa scelta, poi, lo scorso 16 aprile, la Casa Bianca ha aperto le sue porte al primo leader internazionale in visita ufficiale: di nuovo, Yoshihide Suga, il premier giapponese. Le quattro priorità proposte ufficialmente da Suga in occasione del bilaterale sono state, nell’ordine che gli ha attribuito il leader nipponico in un intervento sul Wall Street Journal: lotta al cambiamento climatico, protagonismo nell’innovazione e nella sicurezza digitale, promozione del libero scambio a livello mondiale, tutela della stabilità e della legalità internazionale nell’area dell’Indo-Pacifico. Convitato di pietra, ancora una volta, il Partito comunista cinese e la sua rinnovata assertività messa in mostra a partire dal vicinato asiatico.

Nel comunicato post-vertice di Biden e Suga, infatti, “l’alleanza per forgiare un Indo-Pacifico libero e aperto” (“The alliance: forging a free and open Indo-Pacific”) è diventata il primo punto in ordine di importanza: “Il presidente Biden e il primo ministro Suga hanno avuto uno scambio di opinioni – si legge – sull’impatto delle azioni della Cina sulla pace e sulla prosperità nell’Indo- Pacifico e nel mondo tutto, e hanno condiviso le loro preoccupazioni sulle attività cinesi che non sono in linea con un ordine internazionale fondato sulle regole, incluso l’utilizzo di forme di coercizione economica di altro tipo”. Sempre nel comunicato congiunto, poi, c’è un significativo passaggio su Taiwan, che dopo Hong Kong è oggetto di attenzioni non esattamente benevole da parte di Pechino: “Sottolineiamo l’importanza della pace e della stabilità nello Stretto di Taiwan e incoraggiamo la risoluzione pacifica dei temi che lo riguardano”. Come ha scritto Jennifer Lind, docente al Dartmouth College e fellow di Chatham House che segue da vicino la politica estera giapponese, questo “potrebbe sembrare un passaggio innocuo, ma l’ultima volta che i due alleati hanno citato Taiwan in un comunicato ufficiale dopo un summit era il 1969”.

Dalla “diplomazia da karaoke” a pivot nell’Indo-Pacifico

Walter Russell Mead, politologo ed esperto di politica estera, si è spinto a scrivere che “l’alleanza col Giappone è la singola più importante relazione che l’America abbia. Senza il peso economico del Giappone, senza le sue capacità tecnologiche e la sua posizione geografica, gli Stati Uniti non potrebbero costruire una coalizione efficace per bilanciare la Cina. Ma senza un forte e stabile sostegno americano, il Giappone non può avere vita lunga come grande potenza che si trova nel cortile cinese”. Un altro modo per dire che la nuova rilevanza di Tokyo agli occhi di Washington, così come la scelta giapponese dei dossier e delle posizioni da condividere con l’alleato a stelle e strisce, seppure con la cautela di un Paese asiatico economicamente legatissimo alla Cina, sanciscono la fine della “diplomazia da karaoke”. Con questa espressione, nel Dopoguerra, venne definita la politica estera giapponese, intendendo che i diplomatici di Tokyo avevano ripreso a cantare, ma sempre e soltanto la canzone decisa dai colleghi di Washington. Oggi, invece, il Giappone è un pivot decisivo del nuovo ordine internazionale liberale che gli Stati Uniti vorrebbero perfezionare e salvaguardare nell’Indo-Pacifico.

Il cambio di passo non è di questi mesi. Era parso evidente anche subito prima della presidenza Trump. Tra il 2001 e il 2011, ha osservato di recente la rivista Foreign Affairs, le agenzie giapponesi per lo sviluppo hanno incanalato un totale di 12,7 miliardi di dollari in aiuti ai Paesi del Sud-Est asiatico e del Pacifico meridionale, più del doppio dei 5,9 miliardi di dollari spesi in aiuti dalla Cina in quegli anni. E se è vero che da allora gli aiuti cinesi all’estero sono schizzati all’insù, quelli giapponesi hanno tenuto il passo: nel 2015 Tokyo ha dato il via alla “Partnership for Quality Infrastructure”, iniziativa da 110 miliardi di dollari, i cui principali beneficiari includono India, Filippine e Indonesia, tutti Paesi che hanno dispute territoriali e marittime con la Cina – osserva sempre Foreign Affairs – e che sono preoccupati dell’espansionismo cinese. Insomma, Tokyo ha tentato di fornire una alternativa alla Via della Seta cinese, dando priorità a trasparenza, sostenibilità ambientale e accountability.

Non solo. Anche il presidente Donald Trump, dopo le elezioni vinte del 2016 (ma prima di ricevere ufficialmente l’incarico), invitò in Florida proprio il premier giapponese, Shinzo Abe, come primo leader internazionale, a segnalare che già allora le relazioni tra i due Paesi erano cruciali. Poi però Tokyo dovette prendere posizione di fronte al repentino abbandono di Washington della Trans-Pacific Partnership, mega accordo commerciale nel Pacifico. In modo nient’affatto scontato, il premier Abe – pur senza rompere con Trump – scelse di accrescere l’impegno del suo Paese a favore del commercio multilaterale nell’area, lavorando a una nuova versione dell’intesa, il Comprehensive and Progressive Agreement for Trans-Pacific Partnership. Finito il karaoke, dunque, Tokyo ha trovato modalità diverse per perseguire i suoi interessi nell’area pur sempre in modo collaborativo con l’America.

Una strategia per l’Indo-Pacifico dell’Ue. E l’Italia?

Oggi perfino l’Unione europea, che pure è distante geograficamente (e non solo) da quanto si muove nell’Indo-Pacifico, sembra aver realizzato il nuovo ruolo propulsivo del Giappone oltre che l’importanza di avere qualcosa da dire su quanto accade in quell’area di mondo. Così, lo scorso 19 aprile, il Consiglio dell’Unione europea ha adottato per la prima volta una “Strategia per la cooperazione nell’Indo- Pacifico”. Ci saranno altre occasioni per esaminare approfonditamente il nuovo documento, ma intanto si può osservare come nelle dieci pagine non manchino i riferimenti quasi letterali al concetto di “Indo-Pacifico Libero e Aperto” coniato ufficialmente da Tokyo nel 2016, poi fatto proprio dal Dipartimento di Stato statunitense un anno dopo.

Parole, parole, parole? Lo si vedrà relativamente presto. Intanto però il generale Claudio Graziano, presidente del Comitato militare dell’Ue (CEUMC), negli scorsi giorni protagonista di una visita certo non di rito in Corea del Sud, ha osservato che l’Ue potrebbe giocare un ruolo maggiore, a partire dalla sicurezza marittima nel Pacifico insieme ai partner asiatici, “attraverso una presenza più sistematica”. Solo in questo mese, d’altronde, si è assistito al primo dialogo “2+2” tra Germania e Giappone, con il confronto diretto tra i ministri degli Esteri e della Difesa dei due Paesi, per discutere di sicurezza regionale. Mentre la Francia ha annunciato che già nelle prossime settimane la sua Marina si unirà, per la prima volta nella storia, alle esercitazioni congiunte di Stati Uniti e Giappone nell’Indo- Pacifico. Manca all’appello, almeno per il momento, l’Italia. (Public Policy)

@marcovaleriolp