Gig workers, la foto dell’Inps: sono 590mila, guadagnano 8 euro l’ora

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ROMA (Public Policy) – I gig workers in Italia sono circa l’1,6% della popolazione, quindi 590mila individui. La stima è dell’Inps ed è contenuta in un documento depositato nelle commissioni Lavoro e Industria al Senato, che riprende l’indagine pubblicata nel XVII Rapporto Inps, in merito al dl Salva imprese.

La stima è composta da tre addendi: una percentuale che dichiara di essere un gig worker come unica attività lavorativa (lo 0,37%, 137.000 individui), una quota per cui l’attività è invece un secondo lavoro (0,92%, 342.000), infine una quota non trascurabile di individui che pur dichiarandosi disoccupati allo stesso tempo dichiarano però di avere svolto qualche lavoretto nella gig economy (0,30%, 110.000).

Sempre secondo i dati Inps, una parte superiore al 70% dei lavoratori della gig economy è impegnata in lavori che non richiedono ‘strumenti’ particolari per essere portati a termine (bicicletta, scooter, autoveicoli, immobili) e che pertanto presumibilmente è composta da soggetti impiegati nel crowdworking, categoria – sottolinea l’Istituto di previdenza – per la quale sono minime le informazioni a disposizione su condizioni di lavoro e tipologie di contratti.

Secondo l’indagine, inoltre, è sbagliato inquadrare i lavoratori della gig economy come prevalentemente giovani con bassi livelli di istruzione. Si tratta di “un luogo comune”, specifica l’Inps, visto che la distribuzione dei livelli di istruzione è molto simile a quella dei lavoratori italiani. La distribuzione per età, invece, mostra come siano le classi centrali, da 30 a 50 anni, quelle con più alta incidenza (la distribuzione per genere vede una contenuta prevalenza maschile: 58% di uomini).

Ma quanto lavorano i gig workers? Per quanto riguarda il numero di ore lavorate emerge una polarizzazione: da un parte emerge che circa il 50% dei lavoratori della gig economy lavora meno di cinque ore a settimana; dall’altra, per coloro che hanno un solo lavoro, circa il 25% lavora più di 30 ore a settimana. Una polarizzazione si osserva anche per quanto riguarda la durata media dei rapporti di lavoro nella gig economy, con circa il 55% che ha cominciato l’attività lavorativa negli ultimi sei mesi, quindi con un durata limitata compatibile con l’idea di un ‘lavoretto’, mentre circa il 13% ha cominciato da più di tre anni (15% da 1 a 3 anni), e ci si riferisce presumibilmente ad un lavoro stabile.

Uno dei temi centrali è quello della paga. Dall’indagine emerge che il 52% dei lavoratori della gig economy dichiara di essere retribuito per compito svolto, e meno del 25% per ora lavorata. Il salario orario mediano dei lavoratori della gig economy è di 8 euro, che non è lontano dalle soglie discusse per un salario minimo in Italia. Ciò vuol dire che appunto il 50% di questi lavoratori guadagna meno del salario minimo, e in alcuni casi – sottolinea l’Inps – i salari orari dichiarati ammontano a 1-2 euro. Se si prendono in esame i salari mensili, i livelli sono decisamente bassi (con salari mediani di circa 200 euro) dovuti sia alle poche ore lavorate e ai bassi salari orari. Se si considerano i redditi complessivi individuali (comprendenti tutti i redditi da lavoro) emerge che i differenziali tra i redditi per i lavoratori della gig economy e quelli dei lavoratori dipendenti e autonomi è “abissale”: ad esempio il 55% dei lavoratori della gig economy dichiara un reddito individuale minore di 8 mila euro, contro il 14% dei dipendenti e il 24% degli autonomi.

L’indagine, poi, prende in considerazione anche i redditi familiari. Il 29% delle famiglie dei lavoratori della gig economy guadagna meno di 8 mila euro, contro l’8% delle famiglie dei dipendenti e l’11% delle famiglie degli autonomi. Un dato che l’Inps definisce “allarmante”.

Dall’analisi, secondo l’Istituto di previdenza, “emerge una potenziale contraddizione per i lavoratori della gig economy: da una parte livelli di soddisfazione elevati e libertà di scelta, dall’altra redditi estremamente bassi. Una possibile spiegazione potrebbe risiedere nelle aspettative di individui in famiglie con grande disagio, che seppur guadagnando redditi estremamente bassi si ritengono soddisfatti in quanto non dispongono di opportunità alternative migliori”.

Sul piano delle tutele, inoltre, l’indagine rileva che solo il 33% dei lavoratori della gig economy è consapevole della tipologia contrattuale del proprio impiego. “E dato che le tutele sono strettamente legate alla tipologia di contratto, ciò vuol dire che il 67% dei lavoratori non ha alcuna nozione sulle proprie tutele. Tra quelli che sono consapevoli del tipo di contratto utilizzato, il 50% riguarda prestazioni di lavoro autonomo occasionale, che sotto la franchigia assoluta di 5.000 euro non prevedono contributi Inps e tutele”, si evidenzia (quello di abbassare la soglia dei 5.000 è stato un suggerimento avanzato dal presidente, Pasquale Tridico, in audizione).

L’Inps ha infine chiesto di dare un ordinamento di preferenza alle varie tutele, con questo esito (dal maggiormente preferito a scendere): pensioni; sussidi di disoccupazione; malattia; infortuni; assegni familiari; maternità. L’ordinamento non cambia se si prendono in considerazione i lavoratori più giovani, che avrebbero potuto essere meno interessati ad esempio alla pensione e più alla maternità. Su una tutela specifica, la malattia, si sono poste domande addizionali, con il 43% dei rispondenti che dichiara che la tutela fornita non è sufficiente, e con il 78% che si dichiara disposto a pagare contributi maggiori per ricevere maggiori livelli di tutela, chiaramente suggerendo una disponibilità a pagare per avere più tutele (cosiddetta willingness to pay). (Public Policy) FRA