I figli e i figliastri di una par condicio feudale

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di Carmelo Palma

ROMA (Public Policy) – Se come scriveva il Bardo di Avon “non ogni nube porta tempesta”, ogni elezione porta invece con sé tempestose polemiche circa la disciplina della par condicio. Si tratta, in specifico, dei regolamenti che da una parte la commissione parlamentare di indirizzo e vigilanza sulla Rai e dall’altra l’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni devono deliberare, in base alla legge 22 febbraio 2000, n. 28 per le trasmissioni di comunicazione politica e di informazione nel periodo della campagna elettorale. Come è noto questa legge, che è ormai vecchia di un quarto di secolo e dimostra tutti i suoi anni, era stata imposta dalla sinistra per riequilibrare il controllo monopolistico dell’informazione Rai-Mediaset durante i periodi di governo del Cavaliere, che fino al 2000 era però stato al potere per pochi mesi (nel 1994) e dopo il 2000, malgrado la par condicio, avrebbe invece governato, con una parentesi di due anni (2006-2008), per un intero decennio. Eterogenesi dei fini?

Questa legge serviva nelle intenzioni dei proponenti a impedire che le emittenti pubbliche e private, sottoposte per ragioni politiche e proprietarie al controllo berlusconiano, fossero usate nelle campagne elettorali come un’arma di propaganda di regime e di distruzione di massa degli avversari del partito di Arcore (e di Mediaset). D’altra parte, fin dai tempi del monopolio Rai la tv di stato aveva adempiuto a una funzione stabilizzatrice, prima al servizio del potere politico di quello che Bruno Vespa definiva il suo editore di riferimento (la DC) e poi degli altri partiti via via consociati nel governo dell’emittente pubblica (in particolare PSI e PCI). La diffusione della televisione commerciale e la discesa nel campo politico di Berlusconi aveva reso potenzialmente più totalitario il controllo dei mezzi di comunicazione. Malgrado fosse stata concepita da chi nel centro-destra sedicente liberale era definito “comunista” (e in alcuni casi lo era davvero, di nome e di fatto), la legge sulla par condicio rispondeva, almeno idealmente, alla liberalissima massima di Friedrich August von Hayek, per cui il controllo di tutti i mezzi diventa anche il controllo di tutti i fini e va in ogni caso contrastato, sia che derivi da una disposizione collettivistica, sia che consegua a uno stato di fatto privatistico.

Dacché è stata approvata la legge sulla par condicio, non c’è però partito o leader politico che, stando all’opposizione, non ne abbia denunciato la violazione ai propri danni e che, da posizioni di potere, non abbia provato ad usarla a proprio vantaggio. Se quella del 2000 può considerarsi una legge pre-contemporanea, precedente alla rivoluzione digitale e concentrata sul potere pressoché monopolistico della radio-televisione nella comunicazione di massa, la sua applicazione risulta un tema tuttora molto sensibile, perché la quasi totalità degli italiani guardano la tv (il 95,9%) e quasi quattro italiani su cinque ascoltano la radio, anche attraverso piattaforme digitali (19° Rapporto Censis sulla comunicazione, 2023). Inoltre nove italiani su dieci usano la tv come principale mezzo di informazione politica (La partecipazione politica in Italia, Istat, 2020), che diventa pressoché esclusivo per la parte della popolazione più anziana e meno scolarizzata.

La legge sulla par condicio distingue due grandi contenitori: le trasmissioni di comunicazione politica (le “vecchie” tribune elettorali, i messaggi autogestiti e le interviste ai rappresentanti delle liste) e quelle di informazione. Nel primo caso l’accesso è riservato in modo paritario a tutte le liste concorrenti alle elezioni. Tutte hanno lo stesso spazio e lo stesso tempo. Ma sono programmi, salvo eccezioni, con ascolti mediocri. Per quanto riguarda i programmi di informazione – notiziari e talk show dagli ascolti importanti – l’articolo 5 della legge 28/2000 stabilisce che questi debbano rispettare i principi “parità di trattamento” “obiettività”, “completezza” e “imparzialità” tra i soggetti politici.

Attorno a questi principi da almeno due decenni infuria una querelle interpretativa in cui, come detto, ai diversi partiti è toccato recitare diverse parti in commedia, a seconda che fossero al governo o all’opposizione. Significa che tutti devono avere lo stesso spazio? Significa che tutti devono essere trattati allo stesso modo (che non significa, come vedremo, avere necessariamente lo stesso spazio)? Un’interpretazione della parità di trattamento nel senso della rigida equiripartizione dei tempi di antenna, dati dalla somma dei tempi di parola – quando gli esponenti dei partiti parlano direttamente – e dei cosiddetti tempi di notizia – quando i programmi parlano di loro – teoricamente è esclusa da un principio deontologico fondamentale, che correla la “notiziabilità” alla rilevanza oggettiva della notizia e quindi esige di non trattare notizie di peso diverso come se fossero equivalenti. Come si può dare lo stesso spazio/tempo di notizia a un’iniziativa elettorale di un partito che coinvolge, ad esempio, decine di migliaia di persone e a un semplice comunicato stampa di un altro partito? Tutte le notizie devono essere misurate con lo stesso metro e proprio per questo non può essere assegnata a tutte la stessa misura.

Negli anni, però, questa giusta obiezione è diventata l’alibi con cui le forze della maggioranza parlamentare nella Rai e Berlusconi nelle sue tv hanno potuto decidere liberamente chi favorire o sfavorire. E questa tendenza politica è stata consolidata, come spesso avviene, in forma di interpretazione giuridica. In base ad essa, un presuntamente oggettivo criterio di equità imporrebbe (il condizionale è più che d’obbligo) che la “parità di trattamento” negli spazi di informazione sia intesa non nel senso delle uguali opportunità di accesso al pubblico radio-televisivo, ma nel senso di una ripartizione dei tempi di antenna proporzionale alla rappresentanza parlamentare delle forze politiche concorrenti.

Se hai preso più voti alle scorse elezioni, hai più spazi di propaganda per le successive. Questa interpretazione, ad essere ironici, potrebbe definirsi il rovesciamento in senso feudale dell’interpretazione comunistica della par condicio: se quest’ultima impone di dare lo stesso spazi a tutti al di là dei meriti, l’altra esige il rispetto del privilegio immeritato degli antichi potenti. Questa paradossale lectio feudale si è imposta da anni nelle delibere dell’Agcom (anche nella sua precedente composizione) e a strascico, anche se con dettati normativi meno espliciti, nei regolamenti della Commissione parlamentare di indirizzo e vigilanza sulla Rai. In vista delle prossime elezioni, purtroppo, non è cambiato nulla.

Il Parlamento dopo essersi burocraticamente arrabattato su commi e cavilli ineffettuali ha martedì sera licenziato un regolamento per la Rai robustamente filo-governativo, che riserva agli esponenti esecutivo spazi privilegiati e “fuori quota” rispetto a quelli delle forze politiche. Cosa grave sì, ma non senza precedenti, visto che a prescindere dal dettato delle norme regolamentari anche in passate campagne elettorali – e sempre nelle attività di monitoraggio in periodo non elettorale – ai membri dell’esecutivo sono riservati spazi di informazione non calcolati in quota alle rispettive forze politiche.

Intanto l’Agcom ha già diffuso una bozza, non ancora approvata definitivamente, in cui riafferma il principio della disparità di trattamento tra i figli e i figliastri, tra i partiti di maggioranza e quelli di opposizione, in nome del principio di maggioranza, che non ha alcun senso invocare per una competizione elettorale, in cui gli organi di informazione per primi dovrebbero assicurare uguali opportunità di partenza a tutte le forze concorrenti.  L’unica vera e positiva novità introdotta dall’Agcom è quella della ponderazione del tempo riservato alle forze politiche per le opportunità di ascolto. Un minuto al tg delle 20.00 non vale infatti come un minuto al tg della notte. Si tratta però di un significativo miglioramento in un impianto regolamentare sostanzialmente sbagliato e discriminatorio, sia per le emittenti pubbliche che per quelle private. (Public Policy)

@CarmeloPalma