Verso il voto: parola d’ordine ‘contenere i danni’ // Nota politica

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di David Allegranti

ROMA (Public Policy) – Dopo settimane di retroscena, dichiarazioni, trattative, chiacchiere e reciproci veti, lunedì alle 15 il Parlamento si riunirà in seduta comune per eleggere il nuovo presidente della Repubblica.

L’unica certezza è il caos. In queste settimane ci sono stati molti appelli, compreso uno per una donna purchessia al Quirinale, firmato da Michela Murgia e Sabina Guzzanti. Non sono mancati gli scambi di no, tra cui quello più insistito di tutti da parte del centrosinistra: “No a Berlusconi”. L’ex Cavaliere alla fine ha sciolto la riserva e si è ritirato dalla corsa, sabato scorso, piazzando però un no a sua volta: niente Draghi al Quirinale, deve restare a Palazzo Chigi. Anche Matteo Salvini dice che il presidente del Consiglio deve restare al suo posto. “Ho deciso di compiere un altro passo sulla strada della responsabilità nazionale, chiedendo a quanti lo hanno proposto di rinunciare a indicare il mio nome per la presidenza della Repubblica”, ha detto Berlusconi, affidando il messaggio alla fedele Licia Ronzulli. Hanno dunque prevalso le ragioni di chi, come l’amico Gianni Letta, gli consigliava di evitare il concreto rischio di un affossamento nel segreto dell’urna, sapendo che neanche il centrodestra lo avrebbe votato in maniera compatta. Ma perché ora dire no a Draghi al Colle? I partiti di centrodestra – dice una fonte “di area” a Public Policy  – “Draghi al Quirinale non lo vogliono perché sarebbe la definitiva liquidazione della politica! La democrazia, anche se degradata, è sempre meglio della tecnocrazia: ci dovrebbero pensare tutti”.

L’impressione è che, comunque andrà, prevarrà una strategia di contenimento dei danni da voto anticipato, dunque un mantenimento dello status quo. Se potesse essere tutto confermato in blocco fino al 2023 – Draghi a Palazzo Chigi, Sergio Mattarella al Quirinale per un altro po’ di tempo – i partiti e i leader sarebbero felici. Solo che Mattarella non vuole prestarsi per mandati a progetto e a termine, e Draghi s’è lanciato un po’ troppo presto nella corsa per il Quirinale, a dicembre nella ormai famigerata conferenza stampa. Il che non significa che alla fine non possa essere eletto lui presidente della Repubblica, attraverso quella che, nonostante tutto, parrebbe una sorta di auto-incoronazione. Surreale sarebbe se proprio i partiti, che rivendicano una ritrovata centralità politica, si prodigassero per perpetuare ed estendere la vita della tecnocrazia portandola a un livello superiore, con l’elezione dell’ex presidente della Bce a capo dello Stato via Palazzo Chigi. Le operazione di ingegneria costituzionale insomma ci possono e devono sì essere, ma sempre in difesa dello stato delle cose. Da qui il senso dell’eventuale operazione Draghi al Quirinale. Un Draghi che non scioglie le Camere, che concerta con la maggioranza un suo successore, che a quel punto potrebbe anche essere una donna. Vedi sempre alla voce “contenimento del danno”. In questo modo ci sarebbe un presidente della Repubblica in totale continuità con se stesso e un nuovo Governo in continuità con l’Esecutivo immediatamente precedente.

Ma appare difficile ipotizzare che i partiti stiano per compiere questa mossa in maniera disinteressata. Forse anzi è proprio vero il contrario e dunque intendono liberarsi, come contropartita, di quei ministeri tecnici che servono nell’anno pre-elettorale. Perché la sensazione è che il Governo Draghi, quello che abbiamo conosciuto fin qui almeno, è comunque finito. Tutte le altre opzioni extra-draghiane ed extra-mattarelliane devono avere un requisito base: devono andar bene all’attuale presidente del Consiglio. Il quale non può sentirsi sfiduciato dalla scelta di un capo dello Stato che sia in totale discontinuità con la propria azione politica. Dunque dovrebbe essere un presidente della Repubblica neutro rispetto al draghismo. Per questo da giorni girano i soliti nomi, da Giuliano Amato a Pierferdinando Casini. In questo caso la frase di Romano Prodi sul presidente che avrà meno veti anziché più voti diviene facilmente circoscrivibile: il veto più importante è uno, quello di Draghi appunto.

Qualora la scelta ricadesse su Draghi, tuttavia, non si potrebbe non segnalare la crisi del sistema di partito, che pur di sopravvivere è disponibile a dare maggior potere ai salvatori della patria della società civile. Come se la comunità politica non fosse in grado di esprimere una classe dirigente non solo all’altezza dello spirito dei tempi ma in grado di convincere, per autorevolezza, un arco costituzionale sufficiente. Il limite dei partiti sta dunque nel proprio opportunismo ma anche nell’incapacità di produrre una nuova generazione di politici. (Public Policy)

@davidallegranti

(foto Daniela Sala / Public Policy)