I percorsi della crisi. La linea dura di Draghi alla prova del Quirinale

0

di Carmelo Palma

ROMA (Public Policy) – Le ragioni che rendono tuttora indecifrabile il percorso che sembrerebbe portare dalla crisi politica della maggioranza a quella istituzionale dell’Esecutivo sono legate, per un verso, agli arcani delle liturgie quirinalizie e, per altro verso, a quanto può ancora accadere in un M5s ben oltre l’orlo della crisi di nervi.

A spingere Giuseppe Conte allo showdown con Mario Draghi, oltre al risentimento per lo strappo di Di Maio, che l’ex capo del Governo considera concordato con Palazzo Chigi, è stata certamente la prospettiva di una riconquistata libertà di manovra: dall’opposizione oppure, se del caso, pure da una terra di mezzo tra la maggioranza e l’opposizione, in cui posizionare per qualche tempo le truppe grilline rimastegli fedeli. È difficile immaginare che Conte volesse determinare subito la crisi dell’Esecutivo, che infatti anche ieri si è guardato bene dall’ufficializzare, pur annunciando l’astensione sul decreto Aiuti al Senato ed è impossibile pensare che volesse affrettare la fine della legislatura, visto che, nel suo disegno, per riguadagnare consensi il M5s avrebbe dovuto differenziarsi e distanziarsi progressivamente dalla politica del Governo e quindi avrebbe avuto bisogno che il Governo rimanesse al suo posto, per segnare differenze e distanze, e ci rimanesse abbastanza a lungo per consentire ai 5 stelle di recuperare il terreno perduto.

Il disegno di Conte è stato preventivamente neutralizzato dalla mossa di Draghi, che, in modo abbastanza inaspettato, ha dichiarato per due volte pubblicamente che non avrebbe accettato alcun cambio di maggioranza e quindi, in caso di defezione del M5s, si sarebbe dimesso da presidente del Consiglio e non avrebbe accettato un reincarico. In questo scenario, le regole istituzionali non contano nulla, perché in realtà non dicono nulla che serva a trovare il bandolo della matassa. Contano le prassi, che peraltro non sono univoche e sono legate a come il presidente del Consiglio e il capo dello Stato interpretano l’emergenza e provano a indirizzarla, e contano le scelte politiche che i vertici delle massime istituzioni ritengono più propizie per l’interesse del Paese.

Se al Senato il M5s come annunciato non voterà la fiducia sul decreto Aiuti a causa della misura sul termovalorizzatore di Roma, il Governo sulla carta dovrebbe uscire comunque con un’ampia maggioranza. Di certo, in termini costituzionali un Governo che ha appena ricevuto la fiducia da una camera non deve considerarsi sfiduciato solo per la rottura parziale della sua maggioranza. La decisione preannunciata da Draghi è stata probabilmente pensata come un modo per rintuzzare i ricatti del M5s, prevenirne altri (ad esempio di Salvini) e mettere il Governo al riparo, nella prospettiva dell’ultima legge di bilancio della legislatura e dei difficili provvedimenti di sostegno legati a crisi energetica, inflazione e rallentamento della crescita.

Ma anche le scelte più logiche possono avere conseguenze impreviste e inintenzionali, come il fatto che il contenzioso con Conte si spostasse dalle mani di Draghi a quelle di altri leader di maggioranza. Esattamente ciò che sta succedendo con Lega e Forza Italia che hanno iniziato a gettare benzina sul fuoco della crisi. Si è insistito molto in questi giorni sull’evidente accordo tra Palazzo Chigi e Quirinale nella gestione dell’attuale fase politica e non è escluso che da parte di Draghi e di Mattarella la linea dura fosse dettata da considerazioni preoccupate circa lo spostamento a destra del baricentro della maggioranza in caso di uscita del M5s. Cosa che avrebbe introdotto un ulteriore elemento di destabilizzazione, a cui si sarebbe aggiunta la riluttanza del Pd a stare al governo solo con Lega e Forza Italia e a rottamare la prospettiva del cosiddetto “campo largo”.

Ora la linea dura torna alla valutazione congiunta di Draghi e Mattarella con quest’ultimo, presumibilmente, tutt’altro che rassegnato a prendere semplicemente atto di quel che è successo e a fischiare già oggi la fine della partita. Per tutte le ragioni che sappiamo: il Pnrr, la guerra, la nuova fase delle politiche di contrasto al Covid, ma soprattutto per la consapevolezza che alla figura di Draghi è tuttora legata la possibilità dell’Italia di continuare a riscuotere credito (sia nel senso politico che finanziario del termine) presso le istituzioni e i mercati internazionali.

Peraltro è evidente che la condizione posta da Draghi a Conte, volta a introdurre un elemento di chiarezza e di comprensibilità nel latinorum politicistico dell’avvocato del popolo, è finita essa stessa preda dell’equivoco che avrebbe voluto dissolvere. Nella sua conferenza stampa serale, Conte non ha aperto una crisi, annunciando l’uscita del M5s dalla maggioranza e neppure chiuso la vertenza con l’esecutivo, dichiarando la disponibilità a continuare a sostenere il Governo, ma non a “firmare cambiali in bianco”. Insomma una non fiducia e una non sfiducia, un esercizio di doroteismo secondo-repubblicano.

Nel momento in cui è possibile che altre forze di maggioranza, a partire dalla Lega, si aggrappino alle parole dei giorni scorsi di Draghi per aprire essi stessi la crisi a cui Conte ha socchiuso la porta, riusciranno Draghi e Mattarella a impedire che le convulsioni del M5s regalino il pretesto di una crisi reale e di elezioni anticipate al centrodestra? E quel M5s libanizzato e come eterodiretto in molte componenti dal profilo Facebook di Alessandro Di Battista uscirà ancora intero da questo passaggio o la prosecuzione dell’emorragia verso Di Maio renderà la sua funzione e presenza ancora più irrilevante?

Oramai non ha invece più senso chiedersi se per preservare la funzione salva-vita di questo Esecutivo e per impedire che il Governo dell’Italia sia anticipatamente riconsegnato a un bipolarismo inconcludente e “bipopulistico”, non sarebbe stato meglio che Draghi tenesse dall’inizio una posizione diversa, indifferente alla composizione e scomposizione della sua maggioranza e vincolata unicamente all’approvazione da parte delle Camere dei provvedimenti del Governo. Le cose sono comunque andate in un’altra direzione, che non è però ancora detto che porti al voto entro settembre. (Public Policy)

@carmelopalma

(foto cc Palazzo Chigi)