Il Codice e il sogno proibito degli appalti a km zero

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di Carmelo Palma

ROMA (Public Policy) – La discussione sul nuovo Codice dei contratti pubblici, che è entrato in vigore il 1° aprile e diventerà operativo il 1° luglio, è finita intrappolata, come spesso accade in Italia, nella sempiterna diatriba tra i guardiani della legalità e le vestali dell’efficienza, come se il trade-off tra i due principi fosse inevitabile e alla politica spettasse semplicemente decidere quale sacrificare.

La vanità di questa polarizzazione è peraltro dimostrata dalla ricaduta pratica del precario equilibrio tra chi vede in ogni appalto una potenziale “mangiatoia” e chi equipara la difesa della concorrenza ai “lacci e lacciuoli” di una burocrazia ostile e inconcludente. L’Italia è un Paese in cui ritardi e opacità si inseguono e si giustificano a vicenda, in cui i costi lievitano e i lavori pubblici non si concludono e in cui entrambe le parti possono trovare ragione dei propri pregiudizi.

L’immagine di questo dibattito inutile e dannoso è stata perfettamente rappresentata da chi col nuovo Codice ha paventato il ritorno al regime delle mazzette e da chi, al contrario, ha garantito la miracolosa moltiplicazione dei cantieri. Purtroppo è vero che qualunque regolamentazione, in qualunque settore della vita civile e economica, va commisurata a una realtà che le regole non possono sperare di “raddrizzare”, ma di cui possono ragionevolmente ambire a incentivare una evoluzione positiva o disincentivare una involuzione maligna.

I contratti pubblici in un Paese con un sistema di piccole e piccolissime imprese diffuso e influente, con una storica permeabilità criminale dell’economia legale e della burocrazia pubblica e con una frammentazione amministrativa patologica sono per definizione un “materiale” politico-legislativo condizionato da variabili negative. Nell’aggiornare il Codice degli appalti il Governo Meloni ha raccolto in larga misura il lavoro svolto da una commissione mista nominata, durante il Governo Draghi, dall’allora presidente del Consiglio di Stato Franco Frattini. Le critiche mosse al testo definitivamente licenziato dal Governo, dopo l’esame delle commissioni parlamentari, riflette comprensibilmente, più che un giudizio negativo sulle norme in sé, un timore per l’abuso a cui qualunque interpretazione delle norme si presta nel nostro Paese. Ogni legge rileva per l’inganno che vi si potrebbe celare.

D’altra parte, il circolo vizioso per cui l’Italia, non essendo “normale”, non può avere una regolamentazione “normale” e deve vivere di norme eccezionali derogate da eccezioni permanenti – sulla scorta di un’emergenza vera o autodichiarata – ha portato alla situazione attuale, in cui l’insoddisfazione è generalizzata quanto il sospetto. Anche la polemica più forte sul nuovo Codice, che ha riguardato l’innalzamento della soglia da 40.000 a 150.000 euro per gli affidamenti diretti di lavori e a 140.000 di servizi e forniture (già previsti in via eccezionale dai cosiddetti decreti Semplificazione nella scorsa legislatura), se non sembra giustificata sulla base dei numeri, lo rimane comunque sulla base dell’impressione che dietro questa semplificazione vi sia un interesse politico diverso a quello dell’efficienza. Dei quasi 200 miliardi di contratti aggiudicati, nei settori ordinari e speciali, per importi pari o superiori a 40.000 euro, quelli compresi tra i 40.000 e i 150.000 euro sono stati nel 2021 circa il 5% del totale (relazione annuale Anac 2021, pagg. 197-198). Circa 11 miliardi, su poco meno di 200 complessivi. Considerando però l’estensione delle procedure negoziate senza bando fino alla soglia di rilevanza europea – procedure che nel 2021 riguardavano già circa il 20% dei contratti, per un importo complessivo di 39 miliardi di euro – la consistenza degli affidamenti operati fuori da meccanismi concorrenziali diventa ragguardevole e soprattutto servibile per operazioni che se non possono considerarsi corruttive sotto il profilo penale, lo sono certamente sotto quello politico.

Facciamo un esempio concreto, riprendendo le parole del ministro delle Infrastrutture Matteo Salvini su uno dei feticci (bipartisan) della politica localista: gli appalti a km zero. Vantandosi di avere messo d’accordo comuni e sistema economico su misure di vantaggio “per le piccole e medie imprese con sede operativa sul territorio” e per chi “favorisce il Made in Italy” il capo leghista immagina di avere trovato un surrogato del superbonus 110% per tenere in piedi l’industria delle costruzioni (forse dimenticando che i lavori assorbono solo un quinto del totale dei contratti pubblici, dominati per la grande parte dal mercato di beni e servizi). Gli appalti a km zero sono la lectio politicamente corretta e nuovisticamente cool del vecchio, brutto, sporco e cattivo collateralismo economico partitocratico. Sono la foglia di fico retorica di forme di oligopolio collusivo, che lubrificano mediante un uso inefficiente della spesa pubblica i meccanismi di consenso del potere locale. Sono un fenomeno tossico, che anche l’obbligo di rotazione delle imprese discrezionalmente prescelte per gli affidamenti ad aziendam non è in grado di neutralizzare, visto che è sufficiente allargare la rete territoriale del sistema oligopolistico per aggirarne le prescrizioni.

Inoltre – last but not least – si tratta appalti che violano in maniera palese i principi del mercato unico europeo. Non è infatti possibile discriminare alcuna impresa sulla base del suo domicilio legale o reale, come ha ripetutamente ribadito anche la Corte costituzionale, in ultimo con la sentenza 98 del 2020, censurando una legge regionale della Toscana che consentiva di riservare alle “micro, piccole e medie imprese con sede legale e operativa nel territorio regionale” la metà degli inviti a tutte le procedure ad invito sotto soglia comunitaria. Il sogno giuridicamente proibito e politicamente suicida degli appalti a km zero è insomma un esempio, forse il più eloquente, della ragione per cui il Codice dei contratti pubblici finisce per mostrare anche i limiti che non ha, ma che derivano dall’uso che ne sarà fatto – come preannunciato urbi et orbi – dalla nostra “democrazia di scambio”. (Public Policy)

@carmelopalma