di Carmelo Palma
ROMA (Public Policy) – Quasi ogni legge di Bilancio è, a suo modo, un’occasione perduta per riflettere su quella sorta di miocardiopatia dilatativa della spesa pubblica, che rende il cuore finanziario dello Stato sempre più grosso e meno efficiente. E anche la prima del Governo Meloni non fa eccezione a questa regola.
Visto che le due più significative anomalie strutturali del bilancio pubblico italiano, cioè l’altissima spesa per pensioni e per interessi sul debito, non possono essere corrette semplicemente voltando pagina, ma trascineranno le proprie conseguenze per i decenni a venire, riflettere e agire sulle cause di questa, poco onorevole, diversità italiana, non è solo un dovere morale, ma una necessità pratica di prepotente urgenza.
A questa responsabilità la classe politica di destra, come di sinistra, ha negli ultimi decenni per lo più risposto esorcizzando il fantasma della cosiddetta austerità, termine che però non designa affatto, come dovrebbe, una politica finanziaria restrittiva, bensì una condizione di drammatica scarsità di risorse disponibili, pure a fronte di una disciplina di bilancio discretamente lassista. Insomma, se si pensa che l’unico modo per fare serie politiche di crescita e di equità sia spendere, i soldi non basteranno mai. Più se ne spendono, più ne mancano. Non è insomma l’Europa ad avere imposto un inflessibile rigore, ma l’Italia a essersi condannata a una cronica e inestinguibile ristrettezza.
La spesa pubblica in Italia nel 2022 sarà di circa 1.029 miliardi, pari al 54,3% del Pil. Pur essendosi sempre attestato tra i più alti dell’Ue, il rapporto tra spesa pubblica e Pil italiano negli ultimi anni di tempesta globale (pandemia, guerra e crisi energetica) ha ulteriormente scalato le posizioni, arrivando ad essere il secondo assoluto (dopo quello della Francia). Grazie al dividendo dell’euro, con il crollo degli interessi sul debito, per buona parte dell’ultimo ventennio l’Italia è riuscita ad apparire virtuosa migliorando l’avanzo primario (avanzo al netto degli interessi), ma nel contempo ha anche aumentato la spesa pubblica primaria (spesa al netto degli interessi), rendendo più espanso ed informe e quindi meno flessibile il bilancio pubblico. Esattamente come un cuore, che si gonfia nello sforzo di essere più vigoroso e, proprio per questa ragione, riesce a pompare meno sangue.
Che la spesa pubblica non sia di per sé né un mezzo, né una misura di efficienza della politica economica e sociale lo dimostrano non solo i dati (l’Italia ha livelli di crescita e equità nettamente inferiori a quelli di moltissimi Paesi che “spendono meno”), ma anche l’esperienza dei cittadini i quali, pur continuando a chiedere maggiore spesa, praticamente sempre e per qualunque problema, tuttavia lamentano giustamente i processi di impoverimento che si accompagnano a questa strategia fintamente solidarista. Negli ultimi anni, le politiche di spesa hanno inoltre assunto un carattere a tal punto particolaristico da far abbandonare alla Manovra anche la semplice parvenza di provvedimento generale, trasformandola nel contenitore di un insieme infinito di micro-transazioni politiche tra elettori ed eletti, cioè nello specchio fedele della nostra “democrazia di scambio”.
Visto che poi la spesa pubblica ha, per sua stessa natura, una caratteristica forza di inerzia e può essere tagliata o anche semplicemente riqualificata solo con molta fatica, la legge di Bilancio finisce per concentrarsi su interventi marginali, sia in senso quantitativo che qualitativo, o puramente dimostrativi (cioè come segno di riconoscibile attenzione a qualcosa o a qualcuno) e per non discutere e affrontare mai o quasi mai i problemi più significativi, che sono considerati di fatto irrisolvibili e quindi neppure più davvero problematici.
Così negli ultimi decenni è potuto avvenire che, agitando forsennate retoriche stataliste di giustizia e solidarietà sociale, l’Italia sia diventata il fanalino di coda europeo per gli investimenti pubblici in istruzione e formazione e abbia lasciato andare alla deriva il sistema sanitario nazionale. Sembra paradossale, ma in realtà è perfettamente coerente con l’idea, ampiamente sdoganata, che il bilancio pubblico serva, grosso modo, a dare direttamente soldi a qualcuno e non a rendere il Paese economicamente competitivo e quindi realisticamente capace di tutelare i deboli e includere gli esclusi.
Da questo punto di vista, bisogna prendere atto che i seicento giorni di Mario Draghi a Palazzo Chigi, peraltro pesantemente condizionati dalle forze della sua maggioranza, sono stati una parentesi che non ha quasi lasciato traccia nel comportamento dei principali partiti di governo e di opposizione, che pure avevano quasi tutti sostenuto l’Esecutivo dell’ex governatore della Bce. Si è subito tornati alle vecchie consuetudini e all’uso del bilancio pubblico come pozzo di San Patrizio della politica. (Public Policy)
@carmelopalma