ROMA (Public Policy) – di Carlo Stagnaro* – Ieri la discussione italiana in tema di energia è stata agitata da un emendamento fantasma, che avrebbe posto fine al regime di “tutela” per i consumatori domestici e avrebbe privatizzato il Gme (Gestore dei mercati energetici). Come spesso accade, si è discusso molto del dito e poco della luna. La questione è complessa e va affrontata sia sotto un profilo di metodo, sia sotto uno di merito.
Il metodo: l’emendamento circolato ieri (e mai presentato) è discutibile sotto molti punti di vista. Ma, al di là delle tecnicalità, il punto rilevante è che questa operazione implica un vasto ridisegno del mercato elettrico italiano e delle forme di tutela dei consumatori. Un emendamento a una norma omnicomprensiva come il decreto Destinazione Italia, che peraltro in materia energetica contiene misure di rara confusione e incoerenza, rischia di dare la sensazione di un intervento maldestro. Una riforma del genere merita, insomma, un respiro più ampio. Paradossalmente, proprio l’apertura di una discussione in materia crea le condizioni per trovare questo respiro.
Il merito investe almeno due ambiti differenti. Non credo che le soluzioni proposte dall’emendamento siano le migliori, ma certamente i problemi identificati sono concreti. Poiché l’emendamento formalmente non esiste, vale la pena guardarli dritti negli occhi. Uno riguarda la tutela dei consumatori; l’altro la governance del settore elettrico. Attualmente è in vigore un regime fintamente “transitorio” che consente ai consumatori domestici e piccole imprese di scegliere se acquistare l’energia sul libero mercato, oppure restare coperti dalla “maggior tutela”. Nel primo caso, esattamente come per il telefono fisso o mobile, ciascuno può scegliere il suo fornitore e sottoscrivere un contratto a condizioni anche molto diverse (offerte flat piuttosto che prezzi variabili, sconti e promozioni, ecc.). Nel secondo, le condizioni di vendita vengono fissate dall’Autorità per l’energia e un soggetto pubblico, Acquirente Unico, è incaricato di provvedere agli acquisti sui mercati all’ingrosso “a condizioni vantaggiose” per i consumatori.
Ora, a 15 anni dall’apertura del mercato, questo meccanismo appare anacronistico e in buona parte obsoleto. Non vale l’argomento che il consumatore “non è maturo”: nessuno può imparare a nuotare, se non gli vengono tolto i braccioli. Neppure vale l’argomento che “il numero è potenza”: se si confrontano i prezzi di cessione Au col Pun (il prezzo di borsa), si evidenzia sistematicamente un delta positivo, anche se molto variabile, che nel 2013 cubava complessivamente quasi 500 milioni di euro. Anche nel 2014, stando ai primi movimenti, sembra che le cose andranno in modo molto simile. La ragione è che un soggetto pubblico come Au è fortemente vincolato nei suoi comportamenti. Da un lato esso controlla una fetta rilevantissima della domanda (nel 2013, serviva 26 milioni di clienti per un consumo totale pari a circa 70 GWh, ossia poco meno di un quarto dei consumi totali), e dunque ogni suo movimento ha effetti immensi sul mercato. Dall’altro lato deve agire in modo prudenziale: a differenza di un normale trader, è sottratto al rischio di fallimento, dunque l’unica alternativa all’azzardo morale è l’eccesso di cautela.
Come uscirne? La risposta “a tendere” è banale: il consumatore italiano è ormai pronto a gestire da sé i suoi consumi elettrici. Esattamente come in altri servizi “pubblici”, quali la telefonia e la televisione, riteniamo che sappia scegliere il fornitore più adatto e l’offerta più conveniente, anche nel caso dell’energia non c’è ragione di avere una visione diversa. E’ insomma il momento di fissare, a partire da una qualche data non troppo nel futuro (1 gennaio 2015?) lo switch off totale per i consumatori elettrici, come del resto proponevamo l’anno scorso nel Manuale delle riforme. Le modalità sono varie, e non necessariamente passano per la scelta di lasciare i consumatori “captive” del loro fornitore storico: per esempio, IBL aveva tempo fa suggerito di “privatizzare” Acquirente unico attribuendone le quote (in forma di cooperativa) agli attuali clienti tutelati (o, meglio, suddividerlo in un numero di cooperative di acquisto più piccole, secondo la stessa procedura). In tal modo, una massa oggi indistinta e inerte di consumatori potrebbe essere “svegliata” e messa in moto, creando più competizione nel mercato dal lato della domanda e ponendo le premesse per una riduzione delle bollette.
La stessa funzione dell’Autorità di fissare dei prezzi di riferimento andrebbe lasciata cadere, anche perché, come ha evidenziato il Consiglio dei regolatori europei:
Regulated end-user prices distort competition and harm the development of retail markets, so they should be removed as soon as possible by creating a roadmap towards free markets.
Insomma, il superamento dell’attuale regime è in qualche modo dovuto. Se questo è vero, allora è pure necessario riflettere sulla governance che si è venuta a creare nel settore, con una moltiplicazione di enti e soggetti non sempre pienamente efficienti che, secondo quanto documentato ieri da Sergio Rizzo sul Corriere della sera, hanno visto lievitare i propri costi. Tra questi enti, Gme – che gestisce il mercato all’ingrosso per l’elettricità e altre commodity energetiche e ambientali – rappresenta senza dubbio un esempio di eccellenza. In tale cornice può aver senso immaginarne, nell’ambito di un riassetto complessivo, anche una fuoriuscita dal perimetro pubblico.
Tipicamente i gestori delle piattaforme energetiche europee sono soggetti privati, che hanno nel proprio capitale attori energetici (in particolare operatori di rete), banche o altri soggetti finanziari, o soggetti specializzati nella gestione di piattaforme borsistiche (l’esempio più ovvio è Nasdaq, azionista della borsa elettrica britannica). Naturalmente, come sempre quando si gestisce il passaggio dal settore pubblico a quello privato, occorre mettere la testa sulle “condizioni al contorno”, in particolare le modalità di remunerazione, che dipendono da scelte regolatorie e, in senso molto lato, politiche. (Istruzioni su come si fanno le privatizzazioni: qui). Non si tratta, cioè, di una decisione da prendere al volo, ma di un percorso da costruire a valle del quale, se si compiono i passi giusti, possono esserci benefici diffusi da raccogliere. In sostanza: l’emendamento di ieri ha scatenato una tempesta, et pour cause visto che decisioni del genere è meglio non prenderle alla chetichella. Il diavolo sta nei dettagli mai come in questi casi. Ma il problema c’è, e se questa è un’occasione per metterlo finalmente sotto i riflettori, ben venga. (Public Policy)
(*Pubblicato su Leoni Blog)