Il malessere dei riformisti del Pd

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di David Allegranti

ROMA (Public Policy) – L’addio di Beppe Fioroni al Pd fu salutato con un’alzata di spalle da parte di Mattia Santori. “Per un Fioroni che se ne va penso che avremo 100 nuovi entranti”, disse l’ex capo delle Sardine. Poi fu il turno di Andrea Marcucci ed Enrico Borghi, direzione (ex) Terzo polo. Ora il Terzo polo non c’è più ma le uscite in quel senso proseguono. In Liguria, 31 esponenti dei Democratici hanno lasciato il partito e sono entrati in Azione, tra questi il consigliere regionale Pippo Rossetti e la consigliera comunale Cristina Lodi, la più votata alle elezioni amministrative del Comune di Genova.

“Alla base di questa scelta c’è la mutazione del Partito democratico rispetto ai valori che ne avevano portato alla costituzione; questa mutazione è il prodotto delle decisioni ‘pur legittime’ della classe dirigente, a livello nazionale e a livello locale, che, secondo il mio punto di vista, hanno fatto abdicare a quelli che erano stati gli obiettivi fondativi, ovvero creare un grande partito riformista, europeista e di sinistra, capace di leggere, interpretare e guidare i mutamenti repentini della società del XXI secolo”, spiega Lodi. “Il successo alle primarie di Elly Schlein è l’esito di un percorso che via via si è sviluppato dentro e fuori il partito che da partito di centrosinistra si è trasformato in un partito senza il centro”, dice Rossetti: “Una radicalizzazione della posizione che considero legittima, che è profonda e che non condivido. Spesso il segretario nazionale ha caratterizzato l’identità del partito (Bersani, Renzi, Zingaretti), ora il cambiamento è strutturale e si è affermato con la modifica del Manifesto di Veltroni del 2007”.

La segreteria del Pd sceglie di minimizzare le uscite: “C’è  un’agenda che unisce anche le varie sensibilità  del Pd. Credo che sia sempre un dispiacere quando qualcuno decide di andare via, ma se ci rendiamo conto che qualcuno può non sentirsi a casa in un Pd che si batte per l’ambiente, i diritti e il lavoro di qualità, allora forse l’indirizzo lo aveva sbagliato prima”, ha detto alla festa de “Il Fatto Quotidiano”. La risposta della segretaria ha tuttavia innescato la reazione della minoranza del Pd, finor sufficientemente silente: “Se militanti e dirigenti lasciano il Pd, chi lo guida non può dire che avevano sbagliato a entrarci, peraltro detto ad alcuni che questo partito lo hanno fondato. Non serve un Pd minoritario.

“‘Meno siamo meglio stiamo’ è l’anticamera della irrilevanza”, dice il deputato Piero Fassino. “Sono molto dispiaciuto dell’uscita di Pippo Rossetti e Cristina Lodi dal Partito democratico. Rispetto la loro scelta anche se non la condivido. Ma forse è il caso di interrogarci tutti, a partire da chi ha le più alte responsabilità nel partito, di fronte a queste e altre uscite. Al netto delle motivazioni personali, c’è un disagio che sarebbe sbagliato ignorare. Ne va dell’identità e del progetto del Pd, comunità plurale e inclusiva cui tutti teniamo”, dice Lorenzo Guerini, presidente del Copasir. “Ora è chiaro che Schlein non ritiene di essere entrata nel Pd ma di aver contribuito a fondare un Nuovo Pd figlio della fusione tra Pd, Art1 e nuovi aderenti come proposto da Letta e approvato all’unanimità a tamburo battente da tutti i dirigenti del vecchio Pd Ma è tardi”, dice l’ex ministro della Difesa Arturo Parisi. “Leggo le dichiarazioni della Schlein sono profondamente irrispettose e del tutto inattendibili dette da una che è uscita e rientrata a suo piacimento dal Pd”, dice l’ex senatrice Caterina Biti: “Cara segretaria ci vogliono rispetto e credibilità per la grande comunità che adesso hai l’onore di guidare”.

Insomma, c’è malessere tra i riformisti del Pd, che temono – come Stefano Bonaccini, oppositore di Schlein – di ritrovarsi in un partito radicale di sinistra ma non di massa. L’arrivo di settembre riapre insomma il dibattito politico nel Pd, proiettandosi verso la campagna elettorale per le Europee del 2024. Schlein fin qui era riuscita a tenere insieme un pezzo dell’opposizione – Pd, M5s, Azione – sulla proposta del salario minimo a 9 euro l’ora. Una prima mossa rivolta anzitutto all’Esecutivo Meloni. Ma le questioni interne al Pd non sono poche, da risolvere. Basti pensare al recente dibattito sul Jobs Act, che Schlein vorrebbe cancellare. Matteo Renzi, naturalmente, si oppone e sfida al confronto la segreteria del Pd.

Di recente è tornato a occuparsene anche il padre della riforma del lavoro, Tommaso Nannicini, che in “Quale Pd” (Laterza) ha detto: “Il Jobs Act è fatto di otto decreti, alcune cose hanno funzionato, altre no, come capita con tutte le riforme complesse. Chi dice che ha creato un milione di posti di lavoro dice una scemenza; chi dice che ha distrutto i diritti dei lavoratori dice un’altra scemenza. Chi parla così, in entrambi i casi, non è interessato ai diritti di chi lavora. È una discussione sul niente, fatta da entrambe le parti per nascondere un impressionante vuoto di idee. Il Jobs Act è una riforma ampia, ha luci e ombre e bisognerebbe parlarne in questi termini, non buttarla in vacca. Durante la fiducia al Governo Meloni ben sei parlamentari hanno citato il Jobs Act. Per non dire di quanto ne hanno parlato in campagna elettorale Letta e Renzi, facendosi male da solo il primo. Un teatrino ridicolo”.

Sul Jobs Act, ha spiegato Nannicini, “c’è un pregiudizio ideologico. Poi per carità, l’errore l’ha fatto per primo il governo di cui ho fatto parte: l’articolo 18 l’avevano già cambiato Monti e Fornero, non c’era bisogno di enfatizzare tanto il tema, ma a un certo punto Renzi decide di usarlo come un simbolo. Anche il Jobs Act in fondo è una riforma Gorbačëv: amata all’estero e odiata in patria”. E perché? “Perché era pensata per essere venduta all’estero. Doveva convincere la Merkel a darci i soldi della flessibilità per gli ottanta euro. L’idea era, appunto, di far arrabbiare i sindacati e far tornare gli investitori internazionali. Serviva al presidente del Consiglio giusto come simbolo, come feticcio ideologico. È stato un errore toccarlo in quel modo senza dialogare con i sindacati, ma nella riforma c’era tanta altra roba positiva”. Anche la riforma del lavoro insomma non può essere salutata con un’alzata di spalle. (Public Policy)

@davidallegranti