di Carmelo Palma
ROMA (Public Policy) – “Elezione diretta del presidente della Repubblica”. Il Programma per l’Italia della coalizione di centrodestra per le elezioni politiche del 2022 recava un impegno tanto perentorio, quanto vago in ordine al tema della forma di governo.
Il presidente della Repubblica è infatti eletto direttamente sia in sistemi di governo parlamentari, in cui non ha poteri esecutivi e interpreta un ruolo di rappresentanza e garanzia costituzionale, come ad esempio in Austria e in Polonia, sia in sistemi di governo presidenziali, in cui il capo dello Stato è anche capo del Governo, come ad esempio in Francia e negli Stati Uniti.
La preferenza del centrodestra per il presidenzialismo era politicamente chiara e dichiarata, ma la sua declinazione programmatica veniva non casualmente elusa.
Dopo le elezioni, il centrodestra ha infatti rapidamente virato verso un modello – il cosiddetto premierato elettivo – tutt’altro che classico e consolidato come il presidenzialismo statunitense o francese, ma sperimentato in un solo Paese, Israele e per sole tre elezioni (1996, 1999 e 2001), prima di essere abbandonato per avere fallito nell’obiettivo di ridurre la frammentazione del sistema politico e ancorare la legge elettorale proporzionale a un funzionamento bipolare.
La proposta approvata dal Consiglio dei ministri su proposta della ministra Elisabetta Casellati ha però una significativa differenza rispetto al precedente israeliano, che è la coincidenza tra il processo di formazione della rappresentanza democratica (il Parlamento) e dell’esecutivo (il Governo). Nella sostanza l’elezione del capo del Governo determina gli esiti di quella dei parlamentari attraverso il dispositivo del premio di maggioranza, che rappresenta una peculiarità e un’anomalia tutta italiana di ibridazione tra i principi proporzionale e maggioritario.
Questo rende nella sostanza super-presidenziale un sistema formalmente parlamentare – visto che spetterà alle camere elette dare e eventualmente togliere la fiducia al capo del Governo – in virtù dell’indissolubile collegamento tra la vita del potere legislativo (cioè la durata delle legislature) e quella del potere esecutivo (cioè la durata del Governo formato dal presidente eletto).
Si tratta di fatto della “nazionalizzazione” del sistema elettorale adottato per le Regioni, che costituisce un unicum assoluto nel panorama delle democrazie.
Se nei sistemi presidenziali e semipresidenziali – proprio in virtù del principio della separazione dei poteri – la convivenza tra un Parlamento e un Governo di diverso colore è frequente (come negli Stati Uniti) o possibile (come in Francia), in Italia sarà di fatto “proibita” e la caduta del presidente eletto trascinerà con sé quella del Parlamento, con una sola eccezione che vedremo in seguito. È singolare quindi che questo modello sia presentato come immune dai rischi autocratico-plebiscitari addebitati ai sistemi presidenziali o semipresidenziali e come un’alternativa efficientistica più rispettosa delle prerogative del Parlamento.
Se questo modello è privo di precedenti e di paragoni nel mondo, non è però stato partorito dal nulla dalla fantasia della ministra Casellati e del centrodestra meloniano.
Al contrario, è l’attualizzazione di una proposta, che sul piano dottrinario ha avuto un’ampia circolazione in Italia a partire dalla metà degli anni ’60, grazie all’opera del costituzionalista cattolico Serio Galeotti, che riprendeva le critiche mosse dal politologo socialista francese Maurice Duverger alla Costituzione della Quinta Repubblica e la sua ricerca di una alternativa neo-parlamentare, che facesse però salvo il principio della prevalenza dell’esecutivo nel sistema di governo.
Questo schema, fondato sul principio del simul stabunt, sumul cadent (Governo e Parlamento rimarranno in carica e cadranno insieme) e del premio di maggioranza per la coalizione collegata al capo del Governo eletto direttamente, ha rappresentato la base dei sistemi elettorali in vigore dal 1993 per i Comuni e dal 1995 per le Regioni e la clausola del premio di maggioranza nazionale – senza elezione formalmente diretta del capo dell’esecutivo e senza simul stabunt simul cadent – è stata l’architrave del sistema elettorale delle Camere tra il 2006 e il 2014, prima che la Consulta lo dichiarasse incostituzionale.
Da questo punto di vista la proposta di Casellati, che mette il Costituzione sia il premio di maggioranza sia l’elezione diretta del capo dell’esecutivo nazionale, è esattamente quella del cosiddetto “Sindaco d’Italia”, invocata da Segni nella stagione dei referendum elettorali ed è strettissima parente della proposta Cesare Salvi (Ds) nella Bicamerale D’Alema (1997-1998), per un premierato solo formalmente non elettivo, che però prevedeva l’obbligo per il capo dello Stato di nominare primo ministro il candidato a tale carica al quale fosse elettoralmente collegata la maggioranza dei parlamentari eletti, e riconosceva al premier il potere di nominare e revocare i ministri e di decretare lo scioglimento delle Camere.
Quanto alla modalità di elezione del capo del Governo e al sostanziale annullamento del ruolo del Quirinale nella formazione dell’esecutivo e nel governo della legislatura la nuova proposta Casellati e la vecchia proposta Salvi non sono dunque uguali, ma hanno effetti identici.
Però laddove Salvi prevedeva come sola eccezione al simul cadunt simul cadent il meccanismo della sfiducia costruttiva, Casellati avanza una soluzione diversa, cioè la possibilità, per una sola volta nella legislatura, di sostituire il presidente eletto con un parlamentare della sua maggioranza, purché il nuovo esecutivo rimanga fedele agli indirizzi politici e agli impegni programmatici del Governo cui succede.
Questo tentativo di unire la sfiducia costruttiva con un meccanismo anti-ribaltone, consistente in una sorta di vincolo di mandato trasferito dai parlamentari ai ministri, è certamente l’aspetto più cervellotico e per certi versi surreale della proposta della maggioranza.
Cosa vuol dire che il secondo Governo deve necessariamente attuare gli impegni del primo? Che il capo dello Stato dovrebbe rifiutarsi di promulgare una legge diversa o contraria a quella che stava nel programma del primo? O che dovrebbe sciogliere le camere se vedesse il secondo Governo inadempiente rispetto agli impegni del primo? Questo giudizio di incoerenza o infedeltà politica di una compagine rispetto ai propri impegni dovrebbe essere trasferito quindi dalle urne elettorali alle stanze del Quirinale o della Consulta?
Peraltro, la formulazione del testo governativo non impedisce affatto la formazione di un Governo con una compagine parlamentare molto diversa da quella precedente. Per fare un esempio storicamente eloquente, non impedirebbe la formazione di un Governo che a destra si descrive tuttora come l’esempio più classico di ribaltone, quello di Lamberto Dini, a condizione che il nuovo Dini sieda tra i banchi della maggioranza parlamentare uscita dalle urne.
L’altra fondamentale differenza tra la proposta Salvi e quella Casellati è che mentre la prima operava nel testo anche la trasformazione costituzionale della figura del presidente del Consiglio in quella di un vero primo ministro, con autonomi poteri di decisione e non solo di direzione politico-istituzionale, la seconda lascia inalterata la figura del presidente del Consiglio, modificandone il meccanismo di elezione e appiccicandole il solo potere aggiuntivo di nomina (ma non di revoca) dei ministri. Si parla insomma di premierato elettivo, ma il premier…non c’è.
Come è successo in tutte le altre occasioni in cui in Italia si è provato a mettere mano alla forma di governo, anche questa riforma susciterà reazioni veementi e, anche in questo caso, troveremo molti dei protagonisti della tenzone, sia tra i favorevoli, che tra i contrari, sostenere posizioni diverse o opposte da quelle manifestate in passato.
La cosa non è in sé così eclatante, né scandalosa perché le diverse meccaniche democratiche che presiedono alla formazione di parlamenti e governi e al funzionamento dei checks and balances non danno ovunque gli stessi risultati e andrebbero conformate alle caratteristiche sociali e politiche reali dei Paesi in cui vengono calate. Questa prudenza, in Italia, non è mai stata tenuta in considerazione.
L’intera storia della seconda Repubblica, al contrario, è stata guidata da un’illusione e da un pregiudizio e questa proposta Casellati li rappresenta entrambi.
L’illusione è di potere rimediare con forme di ortopedia costituzionale e istituzionale alle più macroscopiche deformità del nostro sistema politico e, in particolare, di potere assicurare la cosiddetta stabilità di governo con meccanismi, che semplicemente ne garantiscano la durata. Ma la durata degli esecutivi, posto che sia una condizione necessaria, non è certo una condizione sufficiente per il buongoverno, come dimostra proprio l’esperienza delle Regioni, che si sono dimostrate negli ultimi due decenni le istituzioni più stabili quanto a durata e più disfunzionali quanto a performances democratiche, alimentando la formazione di satrapie locali dalle fortune del tutto indipendenti dalla qualità dei risultati conseguiti.
Il pregiudizio è quello contro la rappresentanza e la mediazione politica in sé, che nella vulgata populista costituisce una forma surrettizia di usurpazione e non di inveramento del potere democratico del popolo. Sotto questo profilo e in questa temperie culturale l’elezione diretta del capo del Governo risponde alla stessa domanda politica che Grillo e Casaleggio pensavano di esaudire sostituendo il Parlamento con sistemi di autogoverno digitale: quella di avvicinare fino a far coincidere, nell’istantaneità di un “voto totale”, la democrazia diretta con la democrazia rappresentativa. Da una parte la democrazia come plebiscito, dall’altra come televoto.
Ci sarebbero, al contrario, molte prove che dimostrano come la qualità scadente delle nostre istituzioni rifletta le distorsioni del nostro processo democratico, che se continuerà a somigliare più a una bisca di giocatori che a un’ideale agorà di cittadini non produrrà risultati diversi mutando il sistema delle giocate.
Che la crisi della nostra democrazia e il declino dell’Italia sia legata semplicemente a un difetto di macchina delle istituzioni rischia di essere soprattutto un alibi per governi che addebitano il fallimento all’assenza di potere, anziché di responsabilità. (Public Policy)
@carmelopalma
(foto Daniela Sala/Public Policy)