L’illusione riforme in una democrazia in default

0

di Carmelo Palma

ROMA (Public Policy) – La prosopopea sulle riforme delle istituzioni e dello Stato accompagna da quasi mezzo secolo il declino economico dell’Italia e le convulsioni del suo sistema politico. La retorica sui cambiamenti di sistema (tutti epocali, necessari e imprescindibili) si trascina da ben prima della fine della Repubblica dei partiti come un miraggio o un pretesto, un antidoto o un alibi per il default democratico dell’Italia. Dopo svariati decenni bisognerebbe almeno accettare l’ipotesi che tutto questo abbia ragioni molto più profonde di un difetto “ortopedico” della nostra Costituzione e forma di governo o dei molteplici sistemi elettorali, che abbiamo di volta in volta riformato, manomesso e ibridato, illudendoci o ingannandoci su di un possibile passaggio alla normalità.

Mutatis mutandis, se abbiamo accettato che non si può esportare la democrazia semplicemente imponendone le regole fondamentali in Paesi che ne ignorano la grammatica morale e la sintassi civile, dovremmo anche ammettere che non si può trasformare l’Italia importando e combinando alla rinfusa dispositivi elettorali e costituzionali, che altrove hanno dato esiti positivi.

Non c’è dubbio che all’inizio degli anni ’90 il tema delle riforme si impose come exit strategy razionale dalla crisi della Prima Repubblica, sulla base del presupposto che la Seconda avrebbe dovuto nascere con una legittimazione politica e una meccanica istituzionale diversa dalla precedente. Non era neppure astrattamente insensato correlare i principali difetti politici della partitocrazia italiana – in primo luogo: una legislazione particolaristica e una spesa pubblica incontrollabile – a quelli di un assetto istituzionale in cui erano escluse vere alternative di governo. La logica dell’arco costituzionale da una parte, il fattore K dall’altra, non lasciavano di fatto spazio a un pluralismo diverso da quello consociativo e compromissorio: che si trattasse del Msi, usato come ruota di scorta per soluzioni d’emergenza (il Governo Tambroni, la presidenza Leone) e soprattutto del Pci, durante la fase della cosiddetta unità nazionale.

Quel che ingannò molti sinceri riformatori – a partire da Segni e Pannella – e milioni di elettori (una vastissima maggioranza di italiani, quorum ego) persuasi che i referendum elettorali avrebbero non solo cambiato, ma migliorato il corso della storia, fu la convinzione che la costituzione materiale della politica italiana fosse essenzialmente un prodotto di quella giuridico-formale e che riformare la seconda fosse sufficiente per rigenerare la prima. Illusione – possiamo dire col senno di poi – tanto generosa, quanto ingenuamente illuministica. Basterebbe a dimostrarlo la sorte di tutte quelle riforme che, anziché rimediare alle storture che avrebbero dovuto raddrizzare, vi si sono grottescamente adattate.

Dall’inizio degli anni ‘90 ci illudiamo che i processi di “presidenzializzazione” – cioè di elezione o investitura diretta dei capi di governo nazionale e locali – avrebbero accresciuto la responsabilità delle istituzioni politiche e la logica dell’alternanza – presidiata da leggi elettorali forzosamente bipolari – avrebbe migliorato l’efficienza dell’azione di governo. In questa logica, l’enfasi sull’autonomia “dal basso in alto” è sembrata quasi a tutti il logico suggello di un processo, che avrebbe consentito il ritorno a un autogoverno diligente di Comuni, Regioni e Stato. È successo esattamente il contrario: il federalismo all’italiana è diventato il moltiplicatore di spese e pretese localistiche e di lamentazioni vittimistiche, il presidenzialismo per sindaci e governatori il viatico di satrapie politiche tanto opache quanto inefficienti e il maggioritario la clausola di salvaguardia di quella grottesca coincidentia oppositorum che è il bipopulismo perfetto, con una rendita garantita per i cosiddetti partiti di sistema – uno a destra e uno a sinistra – e ampi poteri di contorno per i rispettivi alleati.

Il limite fondamentale della proposta del Governo Meloni, cioè della soluzione presidenzialista, semi-presidenzialista o para-presidenzialista, non risiede affatto nel suo carattere ontologicamente antidemocratico, che peraltro denunciano come tale anche quanti, a sinistra, non avevano avuto scrupoli o remore per il “modello Eliseo”, quando a proporlo, esattamente dieci anni fa, era stati Romano Prodi e Walter Veltroni, non Giorgia Meloni. Il limite è rappresentato invece dall’idea, decisamente fallace, che i problemi della legittimazione del potere esecutivo e della sua stabilità e efficienza funzionale in Italia dipendano primariamente da ragioni istituzionali e che solo rendendo espliciti e insuperabili i meccanismi di riconoscimento e addebito di successi e fallimenti gli elettori possono tornare “sovrani” e gli eletti “responsabili”. Però l’accountability non è solo un meccanismo di imputazione, ma in primo luogo un principio di relazione politica. A rendere funzionale o disfunzionale il rapporto tra elettori ed eletti ai fini del governo non è la caratteristica più o meno diretta e personale dell’investitura che i secondi ricevono dai primi, ma la funzione che si riserva alla politica e lo statuto che le si riconosce nella vita pubblica. Una politica degradata a riflesso dell’alienazione collettiva, ridotta a liturgia esorcistica o propiziatoria o declassata a lotteria di rendite e immunità feudali non può diventare più responsabile eleggendo direttamente lo stregone o il capo tribù.

La ragione per cui i Governi non possono attuare il mandato ricevuto dagli elettori, intendendo per mandato il programma che in teoria ci si impegna a realizzare, nasce dal fatto che la competizione politica, cioè la propaganda elettorale, anche nei suoi addentellati nominalmente programmatici, prescinde ormai totalmente dagli effettivi vincoli e compatibilità di governo, a partire da quelle finanziari. I programmi elettorali sono forme di comunicazione manipolatoria, non progetti verificabili ad avanzamento lavori. Le questioni di governo, quelle del concreto rapporto tra i fini e i mezzi, tra le scelte e i risultati, tra la realtà e quel che è possibile o impossibile fare di essa, non possono diventare il banco di prova della politica – qualunque sia il sistema istituzionale e la legge elettorale – finché questa si limita a protestare il dispetto del popolo e a farsene neutrale latrice.

Non ci possono essere Governi né forti, né responsabili se a essere politicamente ripudiata è proprio la dimensione “sperimentale” del governo, della scelta tra alternative che non sono né date, né scontate, in vista di obiettivi che non sono né certi, né assoluti e a dominare invece è la più classica superstizione populista, che postula l’armonia prestabilita degli interessi di tutti e di ciascuno e accusa la politica di rompere, in base a una giustificazione surrettiziamente pluralistica, l’unità di fondo e la totemica indistinzione del popolo e di portare la divisione dove avrebbe regnato la pace e la penuria dove avrebbe prosperato l’abbondanza.

L’azione di Governo è destinata a rimanere impotente, fino a che è culturalmente condannata dall’egemonia culturale populista a rimanere immobile, a non potere decidere alcunché di divisivo su alcun tema dirimente, a non dovere sperimentare reali alternative allo status quo di un Paese in cui il “bisogna cambiare tutto” è sempre sinonimo del “non bisogna toccare niente”, in cui non esistono speranze che non siano nostalgie e non esistono passioni che non siano tristi. L’elezione diretta del capo del Governo, in un contesto politico-culturale in cui si pretende un immediato e mistico rispecchiamento tra potere e popolo, non è un pericolo perché il “semipresidenzialismo è fascista”, ma perché il populismo è davvero, non solo in Italia, il nuovo fascismo e il suo completamento istituzionale sarebbe destinato, presumibilmente, a rendere ancora più profondo e inguaribile il pervertimento dei meccanismi di una democrazia malata come quella italiana. (Public Policy)

@carmelopalma

(foto cc Palazzo Chigi)