di Carmelo Palma
ROMA (Public Policy) – La notizia sull’abolizione dei test di accesso a Medicina è per un verso prematura, guardando all’iter del provvedimento che dovrebbe inaugurare la nuova disciplina, e dall’altro solo eventuale, considerando che le nuove norme in discussione in commissione Istruzione al Senato, poiché prevedono comunque la permanenza del numero chiuso dopo il primo semestre del primo anno, non escludono affatto il ricorso a qualcosa di simile a un test di selezione nazionale, anche se diverso da quello attuale.
Andiamo con ordine.
In primo luogo, non è stato varato alcun testo di legge, ma semplicemente adottato il cosiddetto testo unificato di diverse proposte presentate sul tema a Palazzo Madama, a partire dal quale si aprirà la discussione. Su questo testo potranno essere (e sicuramente saranno) presentati vari emendamenti. Solo al termine di questa discussione, che il consenso generalizzato sul testo unificato fa ipotizzare abbastanza rapida, si giungerà a un testo di legge da presentare e discutere nell’Assemblea del Senato.
In secondo luogo, si tratta di una legge delega, che fissa una serie di obiettivi, principi e criteri, cui toccherà al Governo dare coerente attuazione con un decreto legislativo. Tutto questo da una parte esclude, per una questione di tempi, che la nuova disciplina possa già entrare in vigore per l’anno accademico 2024-2025 e dall’altra parte rende ancora incerti i termini con cui gli indirizzi del Parlamento saranno tradotti dall’esecutivo. In terzo luogo, le norme che dovrebbero portare al superamento del test di ingresso sono suscettibili di diverse modalità di attuazione, nessuna delle quali al momento sembra escludere il ricorso a una qualche forma di test, sia pure non preventivo, per la formazione di una graduatoria nazionale di accesso al numero chiuso, la cui tagliola scatterebbe non, come oggi, prima dell’inizio del corso di laurea in Medicina, ma alla fine del primo semestre del primo anno.
La proposta prevede, infatti, che in assenza del test di ingresso sia unificato il primo semestre dei “corsi di studio di area biomedica, sanitaria, farmaceutica e veterinaria […] garantendo programmi uniformi e coordinati e l’armonizzazione dei piani di studio dei medesimi corsi, per un numero complessivo di crediti formativi universitari (CFU) stabilito a livello nazionale” e che “l’ammissione al secondo semestre dei corsi di laurea magistrale […] sia subordinata al conseguimento di tutti i crediti formativi universitari (CFU) stabiliti per gli esami di profitto del primo semestre svolti secondo standard uniformi nonché alla collocazione in posizione utile nella graduatoria di merito nazionale”.
Tradotto dal burocratese, significa che gli studenti si iscrivono (senza test e senza numero chiuso) a un primo semestre comune a tutti i corsi di laurea del campo medico-sanitario e poi, sulla base dei risultati ottenuti nel primo semestre, sono stilate le graduatorie di accesso (con numero chiuso) dei candidati per il secondo semestre dei diversi corsi di laurea. Quanti a seguito di questa selezione non sono ammessi ai corsi di laurea di Medicina, possono usare i CFU in altri corsi dell’area biologico-chimico-sanitaria. La cosa sembra semplice a dirsi, meno a essere teoricamente congegnata e ancor meno a potere essere concretamente realizzata.
Nel 2023 i partecipanti unici al test per Medicina furono circa 90.000 (il numero di prove fu superiore perché molti parteciparono a entrambi i test nazionali) e i posti disponibili poco meno di 20.000. Con la nuova disciplina i 90.000 candidati, assieme agli altri iscritti ai corsi del campo sanitario, avrebbero potuto frequentare le lezioni comuni del primo semestre. Ci sarebbero state le risorse – aule e docenti – per garantire in realtà questo diritto scritto sulla carta? Posto poi che tutti i candidati fossero stati messi in grado di frequentare le lezioni e sostenere gli esami – in trentesimi, come in tutti i corsi di laurea – la graduatoria nazionale si sarebbe formata secondo standard non uniformi – che però è una condizione richiesta dalla nuova norma – cioè sulla base di prove diverse giudicate in modo inevitabilmente diverso da parte dei singoli docenti. Invece, perché gli standard siano uniformi, deve essere uniforme sia la prova, sia il criterio di valutazione.
Inoltre, anche prescindendo da questa condizione di uniformità, con decine di migliaia di voti espressi in trentesimi (da un minimo di 18/30 a un massimo di 30/30 con lode) non è affatto scontato che non si verifichino parecchie centinaia di ex aequo nelle posizioni della graduatoria complessiva di quanti hanno sostenuto gli esami del primo semestre. Per queste ragioni, è molto probabile che l’Esecutivo, nel dare attuazione ai principi stabiliti dal Parlamento, ritorni in qualche modo alla logica del test, anche se non preliminare e preselettivo. Questa logica potrebbe portare, ad esempio, a trasformare gli esami del primo semestre comuni a tutti i corsi di laurea del campo sanitario in veri e propri test nazionali su materia (chimica, fisica, biologia…) da somministrare contemporaneamente a tutti gli studenti, ovvero, in alternativa, a prevedere un test selettivo alla fine del primo semestre per tutti gli studenti che hanno raggiunto una determinata media di profitto.
Insomma, la cosa più probabile, per non dire scontata, è che il Parlamento, per tenere fede a una promessa dei partiti di maggioranza, voti una norma per l’abolizione dei test preselettivo solo per scaricare sul Governo l’onere e il costo politico di contraddirla, con l’introduzione di test di diverso tipo. (Public Policy)
@CarmeloPalma