di Marco Valerio Lo Prete*
ROMA (Public Policy) – In Italia quella delle “culle vuote” non è un’emergenza. Non lo è più almeno. Ormai la crisi demografica del nostro Paese è conclamata, siamo nel pieno di una “recessione demografica”, come l’ha definita l’Istat. L’istituto presieduto da Gian Carlo Blangiardo, nel suo Rapporto annuale del 2019, ha correttamente scandito la sequenza temporale dei mutamenti della nostra popolazione: “Negli ultimi decenni è cresciuto lo squilibrio nella struttura per età della popolazione e più recentemente si sono manifestati i segni della recessione demografica”. La situazione demografica italiana, dunque, ha ben poco di imprevisto o di improvviso, che poi sono i connotati tipici dell’“emergenza” in senso letterale. I dati, se opportunamente letti e interpretati, sono lì a dimostrarlo.
Negli ultimi anni, nei rari momenti in cui la situazione demografica ha conquistato l’attenzione mediatica, ci si è focalizzati spesso sugli allarmanti scenari futuri che attendono la nostra popolazione. L’anno scorso, per esempio, ottenne una qualche eco il fatto che la popolazione residente nei nostri confini, attualmente di 60,4 milioni di abitanti, potesse scendere a 59 milioni già nel 2045, e poi a 54,1 milioni nel 2065. Tra meno di 50 anni, cioè, perderemmo oltre 6 milioni di persone nel nostro Paese, almeno nello scenario “mediano” prefigurato dall’Istat. Mentre nello scenario peggiore, sempre dell’Istat, nel 2065 i residenti in Italia diventerebbero 46,4 milioni, con una perdita dunque di 13,9 milioni di individui in meno di 50 anni. Alcuni accademici si sono spinti ancora più in là, prevedendo che – in assenza di shock esterni o di misure a sostegno della natalità – fra 100 anni l’Italia sarà abitata da appena 16 milioni di persone, quasi un quarto dei 60 milioni di oggi.
Una qualche attenzione nel dibattito pubblico, pur sempre di breve durata, la ottengono anche i “record” attuali del nostro Paese, attanagliato da una bassissima natalità e da un intenso invecchiamento. “Mai così poche nascite dal 1861”, è stata la sintesi più ricorrente dell’ultimo Bilancio demografico nazionale. Effettivamente, come scrive l’Istat, nel 2018 “sono stati iscritti in anagrafe per nascita solo 439.747 bambini, il minimo storico dall’Unità d’Italia”. A fronte di 633mila decessi nello stesso arco di tempo. Il che si traduce in un saldo naturale negativo e pari a –193mila unità. Un altro indicatore spesso citato dai media è il tasso di fecondità totale delle donne residenti in Italia, cioè il numero medio di figli per ogni donna, pari a 1,32. Un dato sostanzialmente stabile negli ultimi anni (nel 1995 fu raggiunto un picco perfino più basso: 1,19), ma ben lontano dai 2,1 figli per donna che assicurano a una popolazione la possibilità di riprodursi mantenendo costante la propria struttura.
Le previsioni e i dati riportati finora, intendiamoci, sono veri e decisamente importanti. Tuttavia non sono sufficienti e del tutto adeguati a descrivere uno shock demografico radicale in corso da tempo, che ha già modificato in profondità la popolazione italiana, con conseguenze importanti per le sue potenzialità economiche, per la sostenibilità dei conti e del welfare pubblici, per la società nel suo complesso. Bene ha fatto l’Istat, dunque, ad aprire il suo Bilancio demografico nazionale osservando sì che “al 31 dicembre 2018 la popolazione residente in Italia è inferiore di oltre 124 mila unità rispetto all’anno precedente”, ma aggiungendo subito dopo che “si tratta del quarto anno consecutivo di diminuzione: dal 2015 sono oltre 400 mila i residenti in meno, un ammontare superiore agli abitanti del settimo comune più popoloso d’Italia”. Sempre l’Istat, stavolta nel suo Rapporto annuale, lega le “prospettive demografiche” del Paese al “quadro macroeconomico e sociale”, sfatando l’idea che i due argomenti possano essere trattati in modo indipendente l’uno dall’altro.
“Dal 1992 al 1° gennaio 2019 la quota di popolazione in età da lavoro – scrive l’Istat – si è ridotta di oltre cinque punti (era pari al 69,1% nel 1992). (…) Nel 2050 la quota dei 15-64 anni potrà scendere al 50,2% del totale, circa 10 punti percentuali in meno rispetto a oggi. Si tratta di oltre 6 milioni di persone in meno che alimenterebbero la popolazione in età da lavoro”. Scavando un po’ tra i dati, come ho fatto con la collaborazione del professore Antonio Golini (demografo e già presidente Istat), si scopre che questo sconvolgimento della forza lavoro ha riguardato soprattutto i giovani: oggi in Italia gli occupati di età compresa tra i 15 e i 34 anni sono 5 milioni e 77 mila, il 40,8% dei 12,5 milioni di residenti della stessa età. Solo venti anni fa, i giovani lavoratori erano 7,6 milioni, il 46,4% dei 16,5 milioni di giovani di allora. Nel 2018, dunque, abbiamo un terzo dei giovani occupati in meno rispetto al 1998. Colpa della crisi? Anche. Ma soprattutto del fatto che negli ultimi vent’anni un giovane italiano su quattro è letteralmente svanito nel nulla. D’altronde, sempre per rimanere ai cambiamenti già avvenuti e senza bisogno di spingersi nel campo del futuribile, nel 1980 in Italia c’erano 17 milioni di persone under 20 e 10 milioni di persone over 60, trentacinque anni dopo il rapporto è esattamente rovesciato: nel 2015, in Italia, c’erano 10 milioni di persone under 20 e 17 milioni di over 60.
L’emergenza “culle vuote” risale a venti anni fa. Oggi il malessere demografico italiano è in stato avanzato. Prenderne atto non soddisfa soltanto criteri di correttezza lessicale. Accresce invece l’urgenza degli interventi che sarebbero necessari per intervenire e correggere tutta una serie di pericolosi squilibri, e in parte modifica la natura e la portata necessarie di tali interventi.
@marcovaleriolp
* autore, con Antonio Golini, del libro “Italiani poca gente. Il Paese ai tempi del malessere demografico” (LUISS University Press)