Il Paese meno liberalizzato d’Europa

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ROMA (Public Policy) – (di Carlo Stagnaro) L’Italia è il paese meno liberalizzato d’Europa. E’ questo il principale, e non sorprendente, risultato dell’Indice delle liberalizzazioni, il rapporto annuale dell’Istituto Bruno Leoni sul grado di apertura di diversi settori dell’economia. Nel 2013, l’Indice è realizzato con una metodologia radicalmente rinnovata, che consente non solo il confronto tra l’Italia e il paese più liberalizzato per ciascun comparto economico, ma anche e soprattutto di costruire una “classifica” tra i 15 Stati membri della “vecchia” Unione europea.

Per ogni settore, al paese più orientato al mercato viene attribuito un punteggio pari a 100; a quello più ostile alla concorrenza uno “zero”. Dalla media tra i nove ambiti analizzati – carburanti, gas, mercato del lavoro, elettricità, poste, telecomunicazioni, televisioni, trasporti aerei e ferrovie – emerge un indice sintetico che esprime la propensione di ciascun paese alla competizione. Col 28%, l’Italia chiude la classifica, subito dopo Grecia (36%) e Danimarca (41%). All’estremo opposto stanno il Regno Unito (84%), i Paesi Bassi (76%) e la Svezia (62%). La pessima performance italiana dipende da una reticenza generalizzata a rimuovere le barriere all’ingresso in tutti i mercati considerati.

Gli unici dove il risultato è sufficiente – gas e trasporti aerei – riflettono semplicemente una fuga verso la concorrenza inattesa e certamente non voluta. Nel caso del gas, pesa infatti la crisi economica, che abbattendo i consumi ha creato una condizione di eccesso di offerta e innescato un confronto competitivo piuttosto vivace e la conseguente convergenza dei prezzi nazionali verso le medie europee. Per quel che riguarda i trasporti aerei, la debolezza dell’operatore storico (Alitalia) nel contesto di una liberalizzazione di fatto guidata dalle direttive europee ha consentito lo svilupparsi di un mercato relativamente dinamico.

Per il resto, calma piatta, e in almeno quattro casi il nostro paese è in zona “cenerentola”: televisioni (0, cioè siamo il paese meno liberalizzato d’Europa), poste (2%), carburanti (8%) e mercato del lavoro (11%). Sebbene in modi molto diversi, in tutti questi casi l’Italia rinuncia a grandi opportunità di efficienza, a causa di una regolamentazione o di una fiscalità discriminatorie e pensate in modo tale da limitare la concorrenza. Sebbene la situazione, in questi termini, sia tutt’altro che rosea, essa nasconde anche una buona notizia. La debolezza della concorrenza in tanti settori, infatti, implica che riforme relativamente coraggiose possono sortire risultati assai significativi, in termini di aumento della competizione e incentivi all’investimento, alla creazione di occupazione, alla riduzione dei prezzi e in definitiva alla crescita economica.

Le liberalizzazioni, in altri termini, sono l’ “anello mancante” nella dialettica tra rigore e crescita che ha animato il dibattito politico italiano negli ultimi anni. Liberalizzare consente di iniettare efficienza e spirito imprenditoriale in settori nei quali tali qualità non sono necessarie. Significa anche rimuovere posizioni di rendita e redistribuire, a favore dei consumatori, gli extraprofitti che sono la manifestazione fisiologica della mancata concorrenza. Per questo le liberalizzazioni rappresentano il grande assente nei piani del governo.

Se l’esecutivo vuole trasmettere un’immagine di serietà, deve partire da qui, e ripensare le sue decisioni in quest’ottica. Il primo banco di prova è quello delle privatizzazioni: privatizzare è infatti un elemento essenziale dell’apertura alla concorrenza, ma bisogna farlo nel modo giusto. In particolare occorre garantire la piena mobilità degli asset e contendibilità delle quote di mercato. Se Palazzo Chigi vuole battere un colpo, rinunci al controllo sulle aziende partecipate dal Tesoro. La pretesa di privatizzare continuando a comandare in azienda è la cartina al tornasole di un progetto miope e fallimentare. (Public Policy)

Twitter: @CarloStagnaro