Carne coltivata uguale balneari: sovranismo contro il diritto Ue

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di Carmelo Palma

ROMA (Public Policy) – Come è noto, la legge recante il divieto “di produzione e di immissione sul mercato di alimenti e mangimi costituiti, isolati o prodotti a partire da colture cellulari o di tessuti derivanti da animali vertebrati” è stata promulgata dal capo dello Stato solo dopo che il Governo (nella foto: il ministro Lollobrigida) ne aveva notificato l’approvazione alla Commissione europea, nell’ambito della procedura TRIS (Technical Regulation Information System) e dopo le rassicurazioni del sottosegretario Mantovano circa la volontà dell’esecutivo di adeguarsi, in ogni caso, ai rilievi che saranno formulati da Bruxelles in ordine alla possibile incompatibilità con la normativa europea.

Tutto è bene quel che finisce bene? Non direi, perché in questa vicenda nulla è ancora “finito” e non c’è alcuna garanzia, malgrado gli impegni formali del Governo, che tutto possa finire “bene”, se per “bene” si intende il rispetto delle regole europee da parte dell’Italia.

Il “dossier carne coltivata” è ovviamente delicato dal punto di vista simbolico, perché il Governo vi assegna grande rilievo nella strategia che collega sovranità alimentare e sovranismo politico, ma è altrettanto delicato dal punto di vista normativo. Da entrambi i punti di vista, anche dopo la promulgazione della legge, continuano a esserci evidenti macroscopici problemi, che il via libera solo in apparenza condizionato del Quirinale non risolve per il passato e non scongiura per il futuro.

L’Italia con questa legge non ha infatti solo vietato qualcosa (definito impropriamente “carne sintetica”) di cui, in assenza di autorizzazione europea, non è consentita oggi la produzione e la commercializzazione nei Paesi membri dell’Ue, ma ha stabilito che il divieto varrà in ogni caso, anche qualora il nuovo alimento venisse in seguito autorizzato dalla Commissione europea, dopo le verifiche dell’EFSA (European Food Safety Authority) in base al Regolamento (Ue) 2015/2283, che peraltro già oggi considera autorizzabili i nuovi alimenti “costituiti, isolati o prodotti a partire da colture cellulari o di tessuti derivanti da animali” (articolo 3, paragrafo 2, lettera a), n.VI).

La procedura TRIS prevede che gli Stati membri notifichino alla Commissione qualunque “regola tecnica”, anche in forma di disposizione normativa, relativa ai prodotti di fabbricazione industriale, ai prodotti agricoli e ai prodotti della pesca, nonché ai servizi della società dell’informazione, che possa avere effetti sul mercato interno.

La procedura è per sua natura preventiva e stabilisce che la “regola tecnica” sottoposta a valutazione non entri in vigore fino a che non ne sia accertata la compatibilità con il diritto dell’Unione europea e i principi della libera circolazione di beni e servizi. La notifica della legge successiva alla sua approvazione costituisce dunque già di per sé una violazione di quanto stabilito dall’articolo 6 della direttiva (Ue) 2015/1535, che prevede che gli Stati membri rinviino “l’adozione di un progetto di regola tecnica di tre mesi a decorrere dalla data in cui la Commissione ha ricevuto la comunicazione”.

Un’anomalia nell’anomalia di questa vicenda è rappresentata inoltre dal fatto che l’Italia aveva notificato preventivamente il provvedimento nel luglio 2023, ma aveva poi ritirato la notifica, procedendo comunque all’approvazione della legge, con un manifesto aggiramento degli obblighi previsti dalla direttiva (Ue) 2015/1535.

Se dall’Unione europea non arrivasse disco verde alla legge ormai in vigore, questo non ne comporterebbe in alcun modo la sospensione o l’abrogazione per le parti incompatibili con il diritto dell’Ue. L’impegno a recepire i rilievi emersi nella procedura TRIS non è che una promessa del Governo, che potrebbe essere mantenuta o meno e che necessiterebbe, in ogni caso, di un passaggio legislativo. Il Governo non può unilateralmente rottamare la proposta e nulla lascia pensare che sia disponibile a farlo, promuovendo una proposta di legge uguale e contraria a quella salutata dalle fanfare sovraniste.

Non si tratterebbe del resto del primo caso in cui l’Italia sceglie prima di approvare e poi di difendere leggi contrarie alla normativa europea, anche dopo le pronunce della Corte di Giustizia e l’apertura di formali procedure di infrazione. È accaduto e continua ad accadere, ad esempio, in materia di commercio su aree pubbliche o di concessioni balneari e potrebbe accadere anche su questa materia. Certo, come è avvenuto in altri casi, l’autorità giudiziaria su ricorso di chi ne abbia un interesse legittimo potrebbe disapplicare la norma nazionale in contrasto con il diritto dell’Ue, ma non si tratterebbe mai di rimedi erga omnes. Difficilmente un mercato di produttori di carne coltivata potrebbe nascere se tutti singolarmente dovessero imbarcarsi nell’impresa di accedere per via giudiziaria a un diritto formalmente negato per via legale.

Nel caso di bocciatura della legge contro la carne coltivata da parte di Bruxelles, è probabile che l’Italia, più che tornare indietro, proponga un compromesso analogo a quello della direttiva 2015/412/Ue, che consente ai singoli Stati membri di limitare o vietare la coltivazione di organismi geneticamente modificati (Ogm) sul loro territorio, in deroga alle regole sul mercato interno e al principio della libertà di stabilimento delle produzioni agricole autorizzate.

In questo modo non sarebbe proibita la circolazione commerciale in Italia della carne coltivata, ma non sarebbe possibile produrla sul territorio nazionale. Forse è qualcosa di più di un sospetto o di un cattivo pensiero a far ipotizzare che l’uso, scientificamente infondato, del principio di precauzione contro la carne coltivata lascerà, nel giro di qualche anno, spazio all’abuso di pratiche anticoncorrenziali e protezioniste, di cui si negozierà la legittimazione, proprio come è avvenuto con gli Ogm. (Public Policy)

@carmelopalma

(foto cc Palazzo Chigi)