La crisi della previdenza è la crisi della democrazia

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di Carmelo Palma

ROMA (Public Policy) – La parabola politica di Salvini e della madre di tutte le sue battaglie, la cosiddetta “abolizione della Fornero”, è esemplare non solo del personaggio, ma – potremmo dire – del default del processo democratico in Italia.

L’“abolizione della Fornero” ha significato infatti sia la pluri-annunciata controriforma previdenziale – dal 2011, ogni volta che si riaprivano le urne – sia, con un bersaglio sinistramente personale, la campagna di denigrazione e d’odio nei confronti della ministra del welfare del Governo Monti, che il Capitano prometteva, appena giunto nella stanza dei bottoni, di far processare “per alto tradimento” e che nel frattempo faceva inseguire dai suoi manipoli fin sotto la casa dei genitori a San Carlo Canavese, per rinfacciarle il “crimine di tenere le persone al lavoro fino a 67 anni”.

Era l’aprile del 2016 e da allora, in sette anni, la Lega è stata in tre Governi e Salvini ministro in due, ma dell’abolizione della legge Fornero non abbiamo avuto alcuna traccia, né alcuna seria anticipazione.

Tutto quello che abbiamo visto è stata, nel Governo gialloverde, una sperimentazione triennale di quota 100 (62 anni di età e 38 di contributi), che avrebbe dovuto funzionare come un miracoloso moltiplicatore del lavoro (tre occupati per ogni pensionato) e che si è rivelata invece una misura con impatto negativo in termini occupazionali (0,4 occupati per ogni pensionato) con effetto sociale regressivo e con costi altissimi.

Sono andati in pensione con quota 100 meno di 380.000 persone, circa la metà di quelle inizialmente previste, in grande prevalenza maschi, con un peso relativo del settore pubblico doppio di quello privato, in otto casi su dieci ancora occupati e solo nell’8% dei casi percettori di misure di sostegno del reddito.

Per ottenere questo risultato – cioè l’anticipo del pensionamento di poco più che sessantenni nella stragrande maggioranza dei casi occupati e non poveri – si sono cumulate maggiori spese per circa 30 miliardi fino al 2028.

Da allora non è successo quasi nulla, solo specchietti legislativi (riforme finte) per le allodole politiche (gli elettori, che però hanno continuato a cascarci, anzi, come diremo, a “volerci cascare”).

Il Governo Draghi chiuse la sperimentazione di quota 100 come meritava, cioè rottamandola e concedendo a uno strepitante Salvini per il solo anno 2022 una quota 102 (64 di età e 38 di contributi), trasformata nella prima legge di bilancio del Governo Meloni – in cui Salvini sarebbe dovuto “andare a comandare” – in una quota 103 (almeno 62 anni e un’anzianità contributiva minima di 41 anni) anch’essa di durata annuale, cioè per il solo 2023.

La seconda legge di Bilancio dell’era Meloni è, dal punto di vista degli “abolizionisti” della riforma Fornero, ancora più deludente. C’è solo una finta proroga di quota 103, che se per quest’anno era senza penalizzazioni, per il 2024 darebbe accesso a pensioni calcolate interamente col contributivo, con un tetto non superiore a quattro volte il minimo, e con un allungamento delle finestre di uscita: prestazioni di fatto inaccessibili e riservate a pochissime persone, considerando che nel 2023 quota 103 non beneficerà più di 20.000 lavoratori in uscita. La nuova quota 103 è quindi una vera patacca, un puro raggiro. È Totò Salvini che vende la Fontana di Trevi non a un americano, ma ad alcuni milioni di italiani.

Raramente in politica le scelte sono obbligate, ma quelle in materia previdenziale, in Italia, purtroppo lo sono. Il Paese dell’Ue che con la Grecia ha la più alta spesa pensionistica e il più alto debito pubblico in rapporto al Pil, che non ha alcun margine neppure sul lato dell’imposizione contributiva (già oggi la più alta d’Europa) e che ha una situazione demograficamente deterioratissima dovrebbe riconoscere in primo luogo il fallimento democratico di un sistema di consenso, che sulle pensioni (ma non solo) ha unito in un patto predatorio elettorato ed eletti e ha preventivamente scaricato su un futuro ottimisticamente manipolato i costi di qualunque transazione politica.

Visto che nel lungo periodo siamo tutti morti, ma nel medio in moltissimi siamo ancora vivi, già oggi il costo del futuro morde nelle carni di quanti hanno potuto godere di un sistema pensionistico apparentemente generoso, che nel dare tutto a tutti ha però finito per lasciare poco a troppi, cioè per comprare a prezzo di saldo più voti possibili con pensioni anticipate o “regalate” che erano, in molti casi, insufficienti a garantire, come usa dire, una serena vecchiaia.

Salvini, essendo arrivato dopo la fine dei quattrini, ma non dopo la fine delle illusioni, non ha comprato voti regalando pensioni, ma la promessa della vendetta, il miraggio del ritorno indietro della macchina del tempo politica, che aveva portato l’Italia – in primo luogo con la spesa previdenziale – già oltre l’orlo del precipizio. Ed è riuscito a farlo perché il gioco del consenso nella democrazia italiana aveva continuato a funzionare a prescindere dalla realtà e quindi da qualunque criterio di responsabilità, sia per chi vota, sia per chi è votato, sia per chi scommette alle urne come a un botteghino del lotto, sia per chi pensa che l’unico bilancio da tenere in conto sia quello degli scrutini elettorali: tutti uniti dall’azzardo morale, cioè dalla speranza di far pagare la fregatura a qualcun altro.

A dover dire che in questo quadro non c’è spazio per una (contro) riforma previdenziale è stato il ministro Giorgetti, che però, più che il campione del rigore, è il fuoriclasse delle retoriche double face, il salvianiano di lotta e il draghiano di governo, il vice-segretario del partito che annuncia l’abolizione della legge Fornero e il titolare dei conti pubblici che dice che – mi dispiace – davvero non si può fare. Un ulteriore elemento di anomalia, non di garanzia, di ambiguità e non di chiarezza. L’ennesimo tributario di quel processo di dissociazione morale e di alienazione politica che ha reso la democrazia italiana nichilisticamente fragile.

Da questo punto di vista, il merito maggiore della professoressa Fornero e la ragione che le ha procurato le più forti ostilità è stata di non avere fatto, come se si trattasse di un obbligo imposto, una riforma necessaria, ma di avere rivendicato l’esigenza di una dolorosa operazione verità sulle vittime di un dossier ricolmo di equivoci, di inganni e di menzogne, che non si sono però interrotte nel 2011, ma sono proseguite, anche contro di lei. Menzogne che non potendo più far conto sui quattrini da distribuire, diffondono odio e pregiudizio contro i “nemici del popolo”. (Public Policy)

@carmelopalma