Dov’è finita e a cosa è servita davvero l’agenzia di rating cinese Dagong che, senza mai smuovere davvero i mercati, ha però sempre fatto notizia. Parabola di un’“azienda patriottica” che ha ammaliato anche l’Italia
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di Marco Valerio Lo Prete
ROMA (Public Policy) – Più di 100 dipendenti, riuniti dall’11 al 13 ottobre scorso per partecipare a lezioni frontali e quiz online sul Partito comunista cinese, sui suoi “storici risultati raggiunti negli ultimi 100 anni” e sullo sviluppo socialista del Paese. A organizzare l’appuntamento è stata la cellula aziendale del Partito comunista nella società Dagong global credit rating company Ltd. (di seguito “Dagong”).
Non esattamente la classica routine per un’agenzia di rating contemporanea che si definisce “indipendente”, ma è questa l’ultima attività interna di cui dà conto il sito web ufficiale del gruppo cinese che opera nel settore della valutazione del rischio di credito. Parliamo di una società che con ogni probabilità non farà la storia del rating mondiale, ma che in un passato recente ha fatto a lungo parlare di sé in Occidente, soprattutto in Italia, in quanto simbolo scintillante della nuova potenza finanziaria cinese, e che a posteriori sempre più analisti reputano uno strumento eminentemente geopolitico (nemmeno così innocuo) nelle mani di Pechino. Nata all’inizio degli anni Novanta come agenzia di rating dichiaratamente indipendente, arrivata alla ribalta mediatica mondiale nel 2010 promettendo di insidiare i colossi occidentali del rating, oggi Dagong è diventata un’azienda pubblica cinese quasi del tutto ignorata dalla stampa internazionale.
L’ apparizione più recente, lo scorso luglio, in un lancio dell’agenzia Bloomberg che riportava asetticamente la scelta di Dagong di declassare per ben tre volte in una settimana la società immobiliare Sichuan Languang, passata nell’arco di pochi giorni da una valutazione di tutto rispetto (“AA”) alla “estrema incertezza” sulla propria capacità di ripagare i detentori dei suoi bond (“CCC”). Prim’ancora, a gennaio, l’agenzia Reuters dava la notizia della condanna di un tribunale cinese per Dagong, costretta a rimborsare i detentori di bond di un’azienda del settore edilizio, la Wuyang Construction, che aveva falsificato i conti senza che l’agenzia di rating svolgesse gli opportuni controlli. Una china non propriamente gloriosa per una società che, fino a poco tempo fa, con una mano brandiva il vessillo dell’indipendenza da tutti e da tutto, con l’altra puntava il dito contro le “Big Three” del rating mondiale (S&P’s, Moody’s, Fitch) e i loro conflitti d’interesse.
ECONOMIA E POLITICA, I MOTIVI DELL’ESPANSIONE DI DAGONG
Per comprendere la parabola di Dagong, che riguarda da vicino anche il nostro Paese, è necessario ricorrere tanto alle categorie dell’economia quanto a quelle della politica. In diverse occasioni, infatti, durante la fase di espansione internazionale del gruppo, lo stesso management della società cinese ha teorizzato che occorresse rompere il ‘monopolio’ delle ‘Tre sorelle’ occidentali del rating non soltanto in nome del profitto o della concorrenza. Innanzitutto, da una semplice analisi delle dichiarazioni e delle strategie pubbliche dei vertici di Dagong, emerge che la leva del rating è stata ritenuta uno degli strumenti utili a stabilire un nuovo equilibrio internazionale, più consono – secondo i suoi fautori – ai rapporti di forza cangianti tra le potenze economiche mondiali. Il solco è quello tracciato, non a caso, dalla leadership politica cinese: il Presidente Hu Jintao al G20 di Toronto, il 27 giugno del 2010, ammonisce che “bisogna definire un nuovo sistema di rating obiettivo, equo e ragionevole”. Gli fa subito eco, in una delle sue prime uscite internazionali, l’allora presidente di Dagong, Guan Jianzhoung, che al Financial Times proferisce senza mezzi termini: “Le agenzie di rating occidentali sono politicizzate e profondamente ideologiche, non aderiscono a standard oggettivi”.
Per sfidarle vale quasi tutto. Uno dei primi articoli di giornale con cui Dagong si affaccia sulla stampa italiana è del 13 luglio 2010, appare sul Sole 24 Ore, quotidiano della Confindustria, ed è così intitolato: “Auto- rating della Cina: noi i migliori”. Svolgimento: “Pechino dà i voti ai debiti sovrani e tra i primi della classe, inevitabilmente, c’è proprio quello cinese. Secondo l’agenzia di valutazione Dagong Global Credit Rating, la Cina merita un AA+ con outlook stabile sul debito in valuta nazionale. Superati Stati Uniti (fermi ad AA con outlook negativo) e Giappone (AA-), penalizzati da crescita debole e alti deficit”. Dagong con i suoi giudizi un po’ eccentrici non smuove di molto le decisioni degli investitori, ma sicuramente fa notizia. Un discreto clamore, sulla stampa internazionale come su quella italiana, accoglie per esempio i quattro declassamenti del debito pubblico degli Stati Uniti, nel novembre 2010, nell’agosto 2011 e nell’ottobre 2013 (amministrazione Obama), poi di nuovo nel gennaio 2018 (amministrazione Trump). Secondo alcuni analisti, in realtà, tali scelte anticipano un effettivo peggioramento della situazione macroeconomica americana. Tuttavia valutando la solidità del debito e della crescita dell’America pari a quella del Brasile, e inferiore a quella del Botswana, i vertici dell’agenzia cinese attirano su di sé una notevole attenzione. Come utilizzarla? Per criticare pesantemente, di volta in volta, le politiche espansive della Federal Reserve, le disfunzionalità del sistema politico americano, le scelte fiscali dei Democratici e dei Repubblicani, a volte con notevole tempismo rispetto a critiche mosse da organi semiufficiali di Pechino.
Nell’autunno 2013, per esempio, a ridosso del declassamento del debito americano effettuato da Dagong, l’agenzia statale ufficiale Xinhua scrive: “I bond del Tesoro Usa potrebbero non essere più un investimento sicuro”. Un trattamento simile viene riservato allo storico alleato di Washington, il Regno Unito, anch’esso declassato “in solitaria” da Dagong nel maggio 2011. Altri Paesi sono invece oggetto di attenzioni ben più benevole. Spicca il caso della Russia. Dagong prima, nell’estate 2014, avvia una collaborazione con la russa RusRating attorno al progetto Universal credit rating group (Ucrg). Successivamente, quando all’inizio del 2015 il rublo tracolla perdendo il 50% del suo valore rispetto al dollaro, e il tasso di crescita previsto per Mosca è 1,8% (la metà di quello di Washington), Dagong non solo conferma il suo rating ma fa sapere agli investitori che giudica il Paese di Vladimir Putin più solido degli Stati Uniti (Sole 24 Ore, 9 gennaio 2015).
Ormai rientrato lo scalpore destato da simili prese di posizione, a distanza di un decennio, la rivista accademica Journal of Financial Regulation oggi osserva che, secondo diversi studi, “Dagong ha declassato Paesi che erano alleati degli Stati Uniti o concorrenti di produzioni made in China. Mentre ha promosso Paesi che erano stretti alleati della Cina su alcuni temi internazionali, così come Paesi che rifornivano Pechino di materie prime, petrolio e altri prodotti energetici”. Da qui la definizione di Dagong quale “sfida geopolitica per l’industria del rating”. Nella comunicazione pubblica dell’azienda, ai giudizi arcigni verso alcuni Paesi concorrenti, Stati Uniti in testa, fa da pendant un atteggiamento a volte esplicitamente difensivo verso la madrepatria cinese, da cui pure la società rivendica la massima indipendenza. Difficile spiegare altrimenti la scelta, nel 2010, di chiedere alla Securities and exchange commission (Sec) l’autorizzazione per operare sul suolo statunitense motivandola con l’obiettivo di voler “tutelare l’interesse della Cina creditrice”.
“Ma come – scrive il Sole 24 Ore in un corsivo dell’epoca – un’agenzia di rating dovrebbe essere un giudice imparziale e non un ‘avvocato’ di parte”. In realtà l’agenzia Dagong, come notato sulla rivista di geopolitica francese Outre-Terre, “pratica costantemente una doppiezza di linguaggio, dilaniata com’è tra il patriottismo e la sua vocazione internazionale. (…) Il suo presidente oltretutto sembra parlare a nome dello Stato cinese, ricorrendo spesso nei suoi discorsi alla prima persona plurale e assumendo un’ottica nazionale. Per esempio, ecco cosa dice quando l’agenzia si vede rifiutare l’accreditamento per il mercato americano: ‘Gli Stati Uniti vogliono che noi rinunciamo a una parte della nostra sovranità’ (La Tribune)”. Sempre in un’ottica di esplicita promozione degli interessi cinesi, poi, la dirigenza di Dagong attribuisce al proprio gruppo il ruolo di facilitatore e megafono degli investimenti cinesi nel mondo (e in seconda battuta, di quelli internazionali in Cina). In tal senso si muove soprattutto la filiale europea del gruppo, Dagong Europe, fondata nel 2013 con una joint-venture tra Dagong e il fondo sino-italiano Mandarin Capital Partners, e con sede a Milano. I vertici della nuova società, non a caso, in molteplici interventi pubblici e interviste ricorrono alla metafora del ‘ponte’ tra Cina ed Europa, come a evocare una auspicabile “special relationship” tra i due mercati, meglio ancora se a scapito degli storici legami transatlantici. Dagong Europe, come vedremo in un successivo approfondimento, non arriverà mai a emettere rating sovrani, eppure interverrà spesso nel dibattito pubblico del Vecchio continente, in modo particolare in Italia. A volte criticando apertamente le scelte di politica economica dei governi occidentali, altre volte divulgando tra le righe le sensibilità della leadership economica e politica cinese, infine annunciando possibilità di investimento in arrivo da Pechino. Tanto attivismo, specie a livello mediatico, inizia però a ridimensionarsi nel 2015.
RIDIMENSIONAMENTO EUROPEO DI DAGONG. ASSET GEOPOLITICO O PROBLEMA DOMESTICO PER PECHINO?
È proprio all’inizio di quell’anno che l’agenzia di rating fa una delle sue ultime apparizioni sulle pagine dei quotidiani nazionali. Sono i giorni dell’Expo milanese, dove ben tre padiglioni battono bandiera di Pechino (il più grande investitore dopo l’Italia che è ospite dell’evento), e Dagong Europe pubblica un rapporto su “un anno da record per gli investimenti esteri cinesi”: “Il 2014 si è chiuso con 18 miliardi di dollari investiti in società europee – sintetizza il 24 Ore – più che raddoppiati rispetto l’anno precedente quando si erano fermati a 6 miliardi di dollari, lontani dal picco degli 8 miliardi del 2011”. Negli stessi giorni il sindaco meneghino, Giuliano Pisapia, si mostra sensibile all’argomento e in un’ampia intervista al quotidiano confindustriale vanta l’insediamento di Dagong Europe a Milano come fiore all’occhiello della città.
Poi però, quasi all’improvviso, Dagong Europe sembra scomparire dai radar italiani, così come la società madre cinese da quelli internazionali. Gli addetti ai lavori tornano a parlarne nel 2017, quando Wuyang Construction, azienda cinese del comparto edilizio, di punto in bianco non riesce a rimborsare una quota importante delle proprie obbligazioni. Dopo poco tempo si scopre che Wuyang Construction aveva contraffatto dei documenti per ottenere il via libera del regolatore alla collocazione dei bond, e che Dagong è in qualche modo coinvolta. Nell’agosto del 2018, le autorità cinesi addirittura sospendono tutte le attività di Dagong dopo aver accusato la sua dirigenza di gravi conflitti di interesse con alcuni clienti. Il presidente Guan Jianzhong prende carta e penna, scrive al presidente della Banca centrale cinese per difendersi e perorare la propria causa, ma evidentemente non risulta troppo convincente. Di Guan Jiangzhong, da quel momento, non si sente mai più parlare, perlomeno sulla stampa internazionale. Per Dagong invece inizia un limbo che dura quasi un anno e si conclude nell’aprile 2019 con la sua nazionalizzazione ad opera di China Reform Holdings. Tramontata per cause di forza maggiore ogni velleità di indipendenza dallo Stato, dunque, per la società di rating “made in China” si chiude anche la “campagna d’occidente”. L’epitaffio porta la data del 14 novembre 2019, quando il gruppo cinese chiede e ottiene il ritiro dell’accreditamento di Dagong Europe presso l’Esma (Autorità europea degli strumenti finanziari e dei mercati).
A questo punto la leadership politica cinese, diventata formalmente proprietaria di Dagong, sembra a un bivio. Da una parte, come dimostra il pugno duro utilizzato contro la vecchia gestione, Pechino ha bisogno di agenzie di rating domestiche più credibili per rendere attraente anche agli occhi degli investitori stranieri un mercato obbligazionario in forte espansione ma percorso da sinistri scricchiolii (vedi il caso Evergrande). Dall’altra parte, Dagong potrebbe tornare utile per “guidare” gli investitori cinesi verso quei Paesi in via di sviluppo con i quali Pechino tenta di costruire legami finanziari strategici. Secondo autorevoli studiosi della finanza internazionale, esiste infatti una quantità significativa di “debiti nascosti” contratti da Paesi più poveri, in primo luogo africani, frutto di finanziamenti ottenuti da entità statali o parastatali cinesi che sfuggono a meccanismi di controllo e registrazione condivisi a livello internazionale.
Si tratta di una situazione rischiosa per gli operatori finanziari del resto del mondo che, senza rendersene conto, potrebbero trovarsi a trattare con Paesi e istituzioni più indebitati e compromessi di quanto sembra. Allo stesso tempo, è una situazione potenzialmente vantaggiosa per un’agenzia di rating cinese che si muove col favore esplicito (e istituzionale) dello Stato creditore che è all’origine dei “debiti nascosti”. Sospesa l’offensiva contro le “Tre Sorelle” occidentali del rating, quale futuro attende ora Dagong? Tallone d’Achille nel mercato finanziario domestico cinese o grimaldello geopolitico di Pechino nella competizione finanziaria internazionale?
fine prima parte
@marcovaleriolp