di Carmelo Palma
ROMA (Public Policy) – A distanza di quarantacinque anni dall’approvazione della legge 194/78, che legalizzò nel nostro Paese l’interruzione volontaria di gravidanza, il tema dell’aborto rimane politicamente caldo; basti pensare al caso Roccella al Salone del Libro di Torino. Eppure mai come oggi si era registrata, almeno a parole, una volontà unanime, da parte di tutti i partiti, dall’estrema destra all’estrema sinistra, di “non toccare” i risultati di quel faticoso compromesso raggiunto ai tempi dal Parlamento e consacrato dal voto sui referendum del 1981, che bocciarono sia l’abrogazione proposta dal Movimento per la Vita, sia la riforma promossa dal Partito Radicale.
Quello sull’aborto non è il solo tema eticamente sensibile (si pensi anche al fine vita e alla procreazione medicalmente assistita), su cui il più oltranzistico bipolarismo etico ha portato a un ambivalente immobilismo legislativo e in cui le parti, nelle rispettive strategie di consenso, hanno finito per convergere parassitariamente su di una rendita di opposizione alle posizioni altrui e su di una strategia di infinito rispecchiamento dei reciproci pregiudizi. Non una vera contesa politica, insomma, ma una recitazione demagogica.
Così sono decenni che la sinistra si guarda bene dall’adeguare la legge 194 alle necessità di cui pure, quando è all’opposizione, denuncia l’improrogabile urgenza e la destra sta molto attenta a non trarre conseguenze concrete dalle addolorate critiche al nichilismo riproduttivo, limitandosi a usare ostruzionisticamente le molteplici contraddizioni della legge vigente per dimostrare la propria resistenza morale al mainstream abortista. Il risultato paradossale è che la 194 è così diventata intoccabile per tutti, perché tutti ne possono usare un pezzo a sostegno delle proprie posizioni. Il che, a distanza di anni, sembra confermare le riserve che contro questa legge avanzarono fin dall’inizio i Radicali e una parte molto minoritaria del movimento femminista, di cui ai tempi faceva parte anche la ministra Roccella. Da molti punti di vista la situazione in Italia sembra tale da smentire sia le tesi di chi lamenta un diritto all’aborto ostacolato, quando non direttamente negato, sia quella di chi denuncia una dolosa disattenzione alla tutela sociale della maternità, a cui pure la legge 194 è “co-intitolata” (Norme per la tutela sociale della maternità e sull’interruzione volontaria della gravidanza).
Nell’ultima Relazione annuale presentata a metà del 2022 dall’allora ministro Speranza emerge che sono in costante diminuzione sia gli aborti legali che quelli clandestini, anche grazie alla maggiore diffusione della contraccezione d’emergenza. Gli indicatori del fenomeno rappresentati dal tasso di abortività (numero di aborti per 1.000 donne di età 15-49 anni residenti in Italia), pari a 5,4 e dal rapporto di abortività (numero di aborti per 1.000 nati vivi), pari a 165,9 segnano dati in costante discesa e tra i più bassi a livello internazionale.
Oggi in Italia si fanno poco più di un quarto degli aborti che si facevano legalmente quando la legge 194 venne approvata (circa 66.500 nel 2020). Quindi si può dire che la legge ha funzionato, sia nel garantire questo diritto a chi vuole avvalersene (a volte con qualche fatica di troppo), sia nel contenere il fenomeno nelle sue dimensioni quantitative. Però nella stessa legge sono annidati gli equivoci, che ne rendono contraddittoria l’attuazione e facile la strumentalizzazione.
Se la diminuzione degli aborti è legata all’aumento dell’educazione riproduttiva – la pillola anticoncezionale in Italia è legale solo dal 1971 – la legge sull’aborto sembra fondata sul principio per cui sarebbe in qualche misura possibile rendere desiderabili le gravidanze indesiderate con interventi di tipo paternalistico: persuasione morale, incentivi economici e accompagnamento personale. Questo spiega sia disposizioni del tutto arbitrarie – come il “tempo di riflessione” di sette giorni imposto alle donne che vogliono abortire – sia la forzosa statalizzazione dell’aborto –con l’esclusione di tutte le strutture sanitarie private “non autorizzate” – che il fronte anti-abortista invocava per prevenire abusi e quello della sinistra pro choice riteneva necessario per garantire la sicurezza e gratuità dell’interruzione di gravidanza. Il risultato sono stati lentezze e ritardi a volte molesti, a volte davvero afflittivi.
Il diritto all’obiezione di coscienza è così diventato per alcuni il colpevole di tutto e per altri l’estrema trincea della resistenza pro life, quando il problema era ed è piuttosto rappresentato dal rifiuto bipartisan di disciplinare l’interruzione di gravidanza come un atto medico assolutamente normale e non eccezionalmente legale. È vero che il diritto all’obiezione di coscienza (anche in questo caso con la condiscendenza corriva del fronte ufficialmente pro choice) è stata applicato in senso ampiamente estensivo, quando avrebbe dovuto solo esonerare il personale impiegato in “attività specificamente e necessariamente dirette a determinare l’interruzione della gravidanza, e non dall’assistenza antecedente e conseguente all’intervento” (articolo 9, comma 3 della legge 194/78), ma non ha alcun senso fare il processo alle intenzioni di quel 64,6% di ginecologi obiettori, se non si è mai voluto davvero intervenire per assicurare l’ampliamento dell’offerta di prestazioni, pur di salvaguardare il simbolico monopolio degli ospedali e ambulatori pubblici, in cui tuttora si effettuano il 95,2% delle IVG.
Inoltre, con la progressiva diffusione dell’aborto farmacologico, ampiamente possibile per via ambulatoriale, è francamente incredibile che in Italia vi siano tuttora solo 357 strutture in cui è autorizzata dallo Stato la pratica degli aborti. Eppure anche sull’aborto farmacologico il fronte progressista ha balbettato, dettando linee guida variamente interpretabili, anziché imporre, fosse pure per via legislativa, norme chiaramente cogenti. Il risultato è che in Italia l’IVG farmacologica è pari al 35% degli aborti totali, la metà di quanto avviene in Francia o nel Regno Unito. Se tutto questo non sembra avere prodotto rilevanti deficit di prestazioni – il 93,5% degli aborti è stato effettuato nella regione di residenza e l’87,1% nella provincia di residenza – di sicuro non ha facilitato l’accesso all’IVG, per cui, come denuncia da tempo l’associazione LAIGA (Libera Associazione Italiana Ginecologi non obiettori per l’Applicazione della 194), non esiste una mappa chiara e ufficiale di strutture disponibili. Sulla stessa linea l’Associazione Luca Coscioni da tempo contesta i dati forniti dal ministero della Salute, chiusi e aggregati per Regione e non aperti e per struttura sanitaria, come servirebbero per orientarsi in una foresta di situazioni molto disuguali (sono infatti moltissimi ospedali e consultori con il 100% di medici obiettori).
In tutte queste ambiguità e opacità il fronte nominalmente anti-abortista si muove agevolmente, fino a giungere a negare che la legge 194 riconosca davvero l’aborto come un diritto individuale, e non come una concessione elargita dal potere pubblico sulla base di un accordo politico, a cui le donne sono comunque soggette.
@carmelopalma