di Carmelo Palma
ROMA (Public Policy) – Nel circolo torinese di Mirafiori Sud, il Pd ha 51 iscritti. Nei giorni scorsi hanno votato nel congresso di circolo in 24. I residenti dello storico quartiere operaio, che fa parte di due dei pochi collegi uninominali camerali e senatoriali che la sinistra si è aggiudicata alle scorse elezioni politiche in tutta Italia, sono circa 34.000. A Sessa Aurunca, comune della provincia di Caserta di circa 21.000 abitanti, il Pd ha 1.050 iscritti, un numero di poco inferiore ai voti presi alle ultime elezioni politiche, qualche mese fa: 1.360. Il boom delle iscrizioni al Pd nella terra di uno degli uomini forti della cerchia deluchiana – il presidente del Consiglio regionale campano Gennaro Oliverio – ha fatto notizia anche per il caso sollevato dall’ex leader della Cgil Susanna Camusso, eletta proprio in Campania a Palazzo Madama. Solo considerandoli in rapporto alla popolazione residente – e senza neppure osservare le percentuali di voto per il Pd, superiori nella periferia torinese rispetto alla provincia casertana – gli iscritti democratici sono a Sessa Aurunca 33 volte di più di quelli di Mirafiori Sud. Basta questo impietoso confronto per spiegare come anche nella democrazia interna ai partiti, e non solo nella distopia post-democratica e anti-partitica dell’autogoverno digitale, giovi assai poco la logica dell’uno vale uno.
Quanti si precipitano a iscriversi a un partito politico nell’imminenza di uno scontro congressuale non sono la misura del suo radicamento e della sua rappresentanza, ma la prova di efficienza e, più frequentemente, di spregiudicatezza nella capacità di raccolta di consensi “figurativi” da parte dei maggiorenti locali impegnati ad assumere peso sulla bilancia del potere interno. I numeri gonfiati del tesseramento pre-congressuale – nel Pd e non solo nel Pd – non sono un indice di partecipazione e di vitalità politica, ma di resa e di adattamento a quel modello di democrazia di scambio che, nei cosiddetti territori, combina in modo tossico particolarismo e localismo. Peraltro, è particolarmente significativo che a essere intrappolato nella conta delle anime morte, comprate a prezzo di saldo sul mercato politico locale, sia un partito che dal punto di vista statutario si è posto molto seriamente il problema dell’emancipazione della democrazia interna dall’ipoteca dei signori delle tessere, ma non è stato in grado di sciogliere il nodo di una costituzione materiale sostanzialmente feudale.
Dal punto di vista formale, lo Statuto del Pd prevede infatti che la rappresentanza dei diversi territori non sia solo parametrata al numero assoluto degli iscritti residenti, ma ponderata per la dimensione demografica delle diverse circoscrizioni regionali e per i voti effettivamente conseguiti nelle relative sezioni dal partito, in occasione delle ultime elezioni per la Camera dei deputati. Inoltre in quel particolare sistema a doppio turno previsto per l’elezione del segretario e a cascata per l’Assemblea nazionale – con i congressi locali di partito che selezionano i candidati ammessi al ballottaggio nelle primarie aperte – il voto decisivo è comunque affidato a una constituency idealmente rappresentativa dell’intero elettorato di riferimento e concretamente assai più ampia della semplice platea degli iscritti.
Ciononostante la prima fase del Congresso è stata pesantemente condizionata dall’assalto alla diligenza del tesseramento: non solo e forse neppure tanto per decidere i candidati segretari che se la giocheranno alle primarie aperte, ma per consolidare le nomenclature interne con cui il segretario o la segretaria, chiunque sia, dovrà fare i conti subito dopo l’elezione e che rappresentano a tutt’oggi la struttura di partito più stabile e indipendente da qualunque svolta o rovescio politico-elettorale. Anche da questo punto di vista è significativo che il congresso del Pd si sia accesso così fortemente al Sud (quello di Sessa Aurunca è solo un esempio), dove il Pd alle ultime politiche è letteralmente evaporato, pure nelle presunte roccaforti campana e pugliese: sotto Roma, il Pd non ha conquistato un solo collegio uninominale, né per la Camera, né per il Senato, e non ha neppure avvicinato in alcuna regione il risultato medio nazionale.
Il fatto è che le bolle del tesseramento gonfiato offrono un simulacro di consistenza a partiti di cui al contrario testimoniano la fragilità politica e l’evanescenza organizzativa. Ed è un fenomeno che si aggrava paradossalmente quanto più le procedure di iscrizione sono sottoposte a una disciplina rigorosa. Il regolamento per il tesseramento del Pd, approvato un anno fa, prevede che ogni versamento debba essere tracciabile, che non più di tre iscrizioni possano essere versate dalla stessa carta di credito o dallo stesso conto corrente bancario e postale e che le iscrizioni in contanti possono essere accettate eccezionalmente, solo dai non titolari di altri strumenti di pagamento. Il risultato di questa misura è stato il crollo delle iscrizioni al Pd, che fonti di stampa – non di partito – indicavano a fine 2022 a quota 50.000 e che in questi giorni, nell’imminenza della scadenza congressuale, sarebbero arrivate a 150.000, triplicando in trenta giorni, ma rimanendo peraltro lontanissime dalle oltre 300.000 del 2021. Questo balzo in avanti di gennaio è una prova di forza organizzativa e una dimostrazione della capacità di aggregazione del Pd o è, al contrario, il segno che queste forme di tesseramento non hanno più alcuna vera funzionalità democratica, al di fuori del risiko congressuale? Propendo decisamente per la seconda ipotesi.
Considerando che l’aumento delle iscrizioni ha coinciso con un aumento esponenziale delle deroghe e violazioni alle regole stabilite – con molteplici casi di decine e a volte centinaia di iscrizioni pagate dalla stessa carta di credito o dallo stesso conto corrente – non è ragionevole pensare che un tesseramento così concepito sia tanto “criminogeno”, quanto disgregativo in termini politici? Non è – ripeto – una questione che riguardi il Pd; è al contrario una questione che emerge con il congresso dem, proprio perché, in quanto a trasparenza e apertura democratica, quello del Nazereno è un partito che da anni si ingegna più sinceramente di molti altri, almeno sulla carta, a trovare una risposta alternativa tanto al modello dei partiti personali, padronali e plebiscitari quanto a quello della routine post-partitocratica dei partiti delle tessere. Posto che rispetto alle forze politiche vale ciò che vale rispetto alle istituzioni – non bastano le regole formali, le norme elettorali e i dispositivi costituzionali a renderle efficientemente democratiche – è altrettanto vero che a congiurare contro ogni tentativo di autoriforma è anche l’utilizzo ideologicamente feticistico o volgarmente affaristico del “tesseramento” dell’ultimo miglio, cioè dell’uno vale uno elevato a potenza, come suggello della cosiddetta democrazia interna.
Il Pd nel suo Regolamento congressuale – art. 4.2.lett.a) – ha deciso che a partecipare con diritto di voto ai congressi di circolo fossero gli iscritti 2021 “che abbiano rinnovato l’adesione per l’anno 2022, nonché i nuovi iscritti”. Il che significa che per dare il senso dell’allargamento e dell’inclusione di nuove energie e forze politiche nel “nuovo” Pd, il Nazareno ha trasformato i congressi di circolo nel suk di un vecchissimo tesserificio pre-congressuale. Nessun soggetto politico stabile e duraturo può credibilmente affidare le scelte fondamentali a una base associativa formata, per la gran parte, all’ultimo minuto. Sarebbe bastato decidere che nei congressi di circolo il diritto di voto o un diritto di voto fortemente privilegiato fosse riservato agli iscritti continuativi al Pd degli ultimi 3 o 5 anni per scongiurare la degenerazione parassitaria del correntismo democratico. Se non è stato fatto è anche perché le stesse candidature alla segreteria del Pd e le stesse scelte delle correnti e sottocorrenti Pd sono maturate all’ultimo minuto. Ma è proprio questa logica di brevissimo termine a produrre dal punto di vista politico-organizzativo gli effetti più dissipativi.
Più in generale i partiti – certo non solo il Pd – dovrebbero riflettere sui propri assetti interni in base a criteri più apertamente meritocratici, che peraltro non sono affatto facili da stabilire e sono particolarmente delicati dal punto di vista democratico. Ma l’idea di dare più voce in capitolo, più potere e più forza di direzione agli iscritti e ai dirigenti capaci di raccogliere i risultati migliori, misurati su criteri diversi da quelli del “tesserificio” è un’esigenza sempre più ineludibile di qualunque impresa politica. Esigenza che i partiti plebiscitari affidano disfunzionalmente alla sola forza del capo e del leader, ma che i partiti che vogliono essere davvero democratici non possono affidare alla virtù del tesseramento pre-congressuale. (Public Policy)
@carmelopalma