di Carmelo Palma
ROMA (Public Policy) – L’espressione “legge bavaglio” in Italia non designa, in genere, una norma volta a censurare la libertà di informazione o di indagine, ma a reprimere il business della pornografia mediatico-giudiziaria e i relativi profitti per le carriere dei magistrati e dei giornalisti. L’emendamento presentato dal deputato di Azione Enrico Costa alla legge di delegazione europea e approvato il 19 dicembre alla Camera anche con i voti della maggioranza restia, fino all’ultimo, ad aprire questo ennesimo fronte di scontro con le toghe e con le vestali e le prefiche della libertà di stampa, ha dunque tutte le caratteristiche per essere rubricato nella categoria del “bavaglio”.
Nel dettaglio, l’emendamento delega il Governo ad adottare uno o più decreti legislativi per adeguare il nostro sistema penale alla direttiva Ue 2016/343 sul diritto alla presunzione di innocenza e a un equo processo e a modificare l’articolo 114, comma 2 del codice di procedura penale, sopprimendo l’eccezione introdotta dall’articolo 2, comma 1, lettera b), del decreto legislativo 29 dicembre 2017, n. 216 (cosiddetta riforma Orlando), con cui si confermava il divieto di “pubblicazione, anche parziale, degli atti non più coperti dal segreto fino a che non siano concluse le indagini preliminari ovvero fino al termine dell’udienza preliminare”, ma si escludeva dall’ambito di detto divieto gli atti contenuti nelle ordinanze di custodia cautelare. Tra questi atti, quelli giornalisticamente più succulenti sono ovviamente le intercettazioni telefoniche e ambientali, esattamente come per ogni storia erotico-sentimentale di personaggi più o meno famosi a finire sulle pagine dei rotocalchi sono le foto e le storie più discinte e pruriginose.
Fino al 2017 la disciplina della pubblicazione degli atti giudiziari aveva, almeno sul piano formale, una logica coerente, vietando la riproducibilità (parziale o totale) di tutti gli atti precedenti alla fase propriamente pubblica del procedimento, quella del processo. Il che non escludeva affatto che delle inchieste, prima dell’inizio del dibattimento, si potesse parlare in modo dettagliato, ma non ne erano pubblicizzabili testualmente gli atti, necessariamente incompleti e selezionati non per concorrere alla formazione della prova, come avviene nel processo, ma per suscitare l’interesse e la mobilitazione del pubblico, come succede nel mercato dell’informazione (e dell’indignazione). Il legislatore del 2017 non era inconsapevole del rischio di trasformare così le ordinanze di custodia cautelare in contenitori omnibus, concepiti per scatenare nell’opinione pubblica lo scandalo verso gli indagati e il favore verso gli inquirenti e non certo per motivare l’accoglimento della richiesta da parte del giudice. Insomma: un catalogo di intercettazioni magari non incolpanti, ma indefettibilmente infamanti.
Per dare l’impressione di porre un argine a questo rischio – dixi et servavi animam meam – il legislatore nel 2017 introdusse un contrappeso puramente simbolico, stabilendo che sia nella richiesta del pm, sia nella decisione del giudice delle intercettazioni fossero riprodotti “soltanto i brani essenziali” all’esposizione delle esigenze cautelari (articolo 291, comma 1-ter e 292, comma 2-quater del codice di procedura penale). La ragione per cui la tutela dal discredito dei presunti innocenti è prevalente rispetto al diritto allo sputtanamento degli indagati sarebbe abbastanza chiara, se la cultura penale italiana non fosse precipitata da tempo nel pezzo nero del pregiudizio inquisitorio. A essere “presunto innocente” è la persona, non il suo astratto avatar giudiziario, cioè l’indagato e dunque la presunzione di innocenza non è un istituto che va salvaguardato solo dal punto di vista processuale, ma anche e soprattutto da quello personale.
La pubblicazione delle intercettazioni di una persona, che non è stata neppure rinviata a giudizio, non soddisfa il diritto dei cittadini a conoscere, ma l’interesse degli inquirenti a legittimare pubblicamente le inchieste, consolidandone surrettiziamente gli esiti e delle testate giornalistiche a lucrare su questa prestazione in conto terzi. Nulla ha impedito, prima del 2017, e nulla impedirà, se l’articolo 114 del codice di procedura penale sarà riportato alla sua versione originaria, di raccontare le inchieste e anche, come spesso avviene, di parteggiare apertamente per la pubblica accusa. Ma senza uno strumento di liquidazione preventiva della rispettabilità sociale dell’indagato. Non basterebbero infatti le pagine di un’enciclopedia per raccontare tutti i casi di indagati usciti morti dalle inchieste, proprio a causa delle intercettazioni pubblicate, molto prima di uscire innocenti dai processi, senza riguadagnare un briciolo di presentabilità sociale.
L’argomento in genere utilizzato dalla magistratura associata per giustificare la pubblicazione degli atti giudiziari prima del rinvio a giudizio – la pubblicità delle intercettazioni garantisce un più puntuale controllo popolare dell’attività giudiziaria – è un esempio da manuale del fariseismo culturale di chi propaganda l’ordalia istruttoria come autentico modello di giustizia democratica. E, vista la convergenza di interessi, non stupisce che il mondo giornalistico, dal suo vertice ordinistico (l’Odg) alla sua base sindacale (FNSI), pensi che far strame del soggetto debole delle inchieste, cioè l’indagato, sia il non plus ultra dell’informazione democratica.
Peraltro la novella normativa contenuta nella legge di delegazione europea, se pure approvata definitivamente, di per sé non potrà segnare un’inversione di tendenza. Infatti i divieti di pubblicazione imposti dall’articolo 114 del codice di procedura penale sono presidiati dall’articolo 684 del codice penale con la pena dell’arresto fino a trenta giorni o con l’ammenda da euro 51 a euro 258. Niente. Quindi, l’unico modo per reprimere questa prassi pornografica sarebbe – come già ricordato – quella di depenalizzare la “pubblicazione arbitraria di atti di un procedimento penale” (art. 684 c.p.) e di introdurre una sanzione amministrativa pecuniaria concretamente deterrente, cioè almeno pari al guadagno atteso dalla violazione del divieto. (Public Policy)
@carmelopalma