di David Allegranti
ROMA (Public Policy) – Il caso Elon Musk merita di essere seguito con attenzione. I suoi acritici estimatori, non sono pochi e basta farsi un giro su Twitter per trovarli, invitano a non moraleggiare, pensando che tutto si riduca a una questione di invidia personale nei confronti dell’uomo più ricco del mondo. Le cose sono naturalmente più complesse di come vengono descritte. L’acquisizione di Twitter, social media che ha 237,8 milioni di utenti contati come “utenti attivi giornalieri monetizzabili” (sono attivi e vengono loro mostrati annunci pubblicitari), sta creando una serie di interrogativi sensati. Il primo di questi riguarda il nostro rapporto, come esseri umani, come pubblica opinione, come semplici utenti, con le piattaforme di social media.
Manfred Spitzer da anni dedica i suoi studi alla “demenza digitale”, come da titolo di un suo saggio. Qui però c’è qualcosa di più. Bisogna interrogarsi sulle effettive manipolazioni del dibattito pubblico da parte di piattaforme che sfuggono a qualsiasi regolamentazione editoriale. Mark Zuckerberg si è sempre rifiutato di considerarsi un editore, figuriamoci Musk che vuole trasformare tutti i cittadini in potenziali giornalisti di base. Una sorta di giornalismo di cittadinanza. Internet è nato secondo un non canone transfrontaliero, transnazionale, globalmente iperconnesso che rende complesso – e qui sta la sua bellezza – trovare norme valide in ogni Paese. Il che, a dire il vero, facilita anche la creazione di un sistema chiuso che impedisca agli abitanti di vedere cosa c’è fuori, come insegna lo stretto controllo statale operato dalla Cina. Musk può legittimamente rivendicare, in quanto privato, la bontà delle proprie scelte. Suoi i quattrini, sua la libera intrapresa. Giusto. Dobbiamo però sapere che i social media non sono uno strumento neutrale, figuriamoci nelle mani di chi lo usa – come sta facendo il padrone di Tesla e Starlink – in maniera spregiudicata.
Il New York Times in un recente articolo ha raccontato che Musk oltre a licenziare i lavoratori, non paga gli affitti, non paga le indennità di fine rapporto e non paga neanche i fornitori. Il problema non è mai stato riportare Donald Trump su Twitter – è accaduto, ma l’ex presidente degli Stati Uniti non ha ricominciato a usare la piattaforma – né cercare di fornire nuovi punti di vista al dibattito pubblico. Il problema è che Musk maschera per libertà d’espressione e pluralismo quello che è semplicemente libertà di straparlare. Musk corteggia no vax e negazionisti della pandemia, il che rende molto discutibile la sua teoria del free speech. È libertà diffondere teorie del complotto? È libertà spargere fake news note anche come balle? Il rapporto fra conoscenza e democrazia è stretto e le manipolazioni della prima hanno effetti devastanti sulla seconda, come ben spiega il professor Marco Ciardi, storico nella scienza, nelle sue ricerche e nei suoi libri.
Pochi giorni fa Musk ha invitato su Twitter a “seguire” il coniglio bianco. Non c’entra Alice nel Paese delle meraviglie o Neo di Matrix. Dal 2018 a oggi il coniglio bianco è sinonimo di QAnon, gruppo politico di estrema destra, i cui membri sostengono una teoria secondo la quale esisterebbe un’ipotetica trama segreta organizzata da un presunto Deep State che avrebbe agito contro l’ex presidente Usa Donald Trump e i suoi sostenitori. Subito, i sostenitori di QAnon si sono eccitati per aver trovato un nuovo leader al quale appoggiarsi. Un leader che alimenta l’idea che chiunque, online, dotato di sufficiente popolarità possa agire indisturbato. Basta avere i soldi e i follower, il resto non conta.
Forse è qui che è nata la distorsione dei social network che sono passati a essere solo social media. “Raggiungere più persone possibili in modo facile ed economico, traendone beneficio, ha attirato tutti”, ha scritto The Atlantic: “Il giornalista che cerca di farsi una reputazione su Twitter; il ventenne che punta a trovare sponsorizzazioni su Instagram; il dissidente che promuove la sua causa su YouTube o cerca di scatenare una rivolta usando Facebook; le persone che vendono sesso, o la loro immagine, su OnlyFans; il falso guru che si fa pagare per dare consigli su LinkedIn. I social media hanno dimostrato che tutti hanno la possibilità di raggiungere un pubblico enorme a basso costo e ad alto profitto, e questo potenziale ha dato a molte persone l’impressione di meritare un simile pubblico”. Ma c’è anche il rovescio della medaglia: “Sui social media tutti credono che ogni utente sia tenuto a prestargli ascolto: uno scrittore che posta un articolo, una celebrità che annuncia un progetto, l’anonimo che esprime la sua angoscia. Quando le connessioni si creano, per qualsiasi motivo o per nessun motivo, allora sembra che ognuna meriti di essere percorsa. È un’idea terribile”. Le persone non sono fatte per parlarsi così tanto. (Public Policy)
@davidallegranti