Lezioni dall’Australia, il canarino occidentale nella miniera dell’autoritarismo rampante

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Il Parlamento di Canberra, con spirito bipartisan e pragmatismo invidiabile,
approva una legislazione innovativa per contrastare le ingerenze straniere nella
sua politica democratica. L’obiettivo è arginare la Cina

di Marco Valerio Lo Prete

ROMA (Public Policy) – L’Australia è il canarino occidentale nella miniera dell’autoritarismo rampante un po’ ovunque nel mondo. Con i suoi 25 milioni di abitanti e la sua democrazia modello Westminster stoicamente preservata in mezzo all’Oceano Pacifico, il Paese degli Antipodi si misura da tempo con i tentativi della Cina di giocare un ruolo nei suoi affari domestici. D’altronde la Repubblica Popolare, specialmente in quell’area del pianeta, giganteggia: 1 miliardo e 400 milioni di abitanti, è una success story della globalizzazione capitalistica che – innestatasi sul dominio del Partito Comunista Cinese – ha generato quello che per qualcuno è un modello di governance tecnocratico-autoritaria.

L’ex Impero celeste punta a influenzare Canberra per almeno quattro motivi, dicono gli esperti: innanzitutto perché l’Australia è tra gli alleati più fidati degli Stati Uniti, cioè del principale avversario geopolitico dei cinesi nell’area; in secondo luogo perché questa propaggine di Commonwealth nell’emisfero australe rimane una media potenza in grado di aggregare chi, nell’area indo-pacifica, teme o osteggia l’avanzata cinese. Il terzo motivo è dovuto al fatto che il Paese ospita una folta comunità di origine cinese, circa un milione di persone che Pechino vorrebbe dalla sua nelle partite politiche che contano, o quantomeno non ostile al regime; infine l’Australia – membro del club dei “Five Eyes” con Stati Uniti, Regno Unito, Canada e Nuova Zelanda – possiede intelligence, know-how militare e informazioni tecnologiche che possono tornare utili a Pechino per tentare il sorpasso ai danni dell’America.

Australia e Cina, una relazione (economica) simbiotica

L’Australia, da parte sua, combatte ormai da decenni la “tirannia della distanza”, come la definì nel 1966 lo storico Geoffrey Blainey, coltivando relazioni più che pragmatiche coi vicini asiatici. Al punto che ormai la Cina è il suo primo partner commerciale. Il Dragone ha fame di materie prime, l’Australia ne è ricchissima, e con le esportazioni si spiega buona parte del recente boom dell’economia di Canberra, l’unica fra quelle di antica industrializzazione a non conoscere recessione da più di un quarto di secolo, col 13% dell’export nazionale – per fare un esempio – riconducibile alla sola vendita di carbone inviato alla volta di Pechino.

Tuttavia, anche a fronte di un simile intreccio di destino geografico e interessi materiali, le relazioni fra Australia e Cina non sono mai state così tese come oggi. L’ambasciatore a Canberra, Cheng Jingye, ha appena detto in pubblico di “non avere idea” se sia previsto da qui al prossimo futuro un incontro tra Malcolm Turnbull (segretario del Partito Liberale e premier australiano dal settembre 2015) e il suo omologo Xi Jinping (segretario dell’unico Partito ammesso in Cina, quello comunista, presidente del Paese dal marzo 2013 e con un mandato ormai a scadenza illimitata). Duncan Lewis, direttore generale dell’ASIO (i servizi segreti australiani), ha osservato di recente che siamo “in un’epoca di attività d’intelligence senza precedenti contro l’Australia, da parte di un numero crescente di agenti segreti e di potenze straniere, con maggiore ricorso allo spionaggio e casi d’interferenza straniera come non si vedeva dai tempi della Guerra Fredda”.

Dalle università al Parlamento: gli indizi dell’ingerenza cinese

Tensioni, anche diplomatiche, sono ormai all’ordine del giorno. Da ultimo, per esempio, l’Australia sta valutando di escludere il gruppo Huawei dalla costruzione della rete infrastrutturale 5G del Paese, considerata troppo sensibile dal punto di vista della sicurezza nazionale per essere affidata a un’impresa made in China dal pedigree ritenuto non sufficientemente cristallino. Poi, come ha scritto l’editorialista Greg Sheridan sulle colonne di The Australian, la Cina “odia” la sola idea che un deputato australiano, forte della sua immunità parlamentare, corra in soccorso di alcuni giornalisti indipendenti minacciati di querela e riveli che un cittadino cinese residente in Australia è indagato in un clamoroso caso di corruzione alle Nazioni Unite; “odia” il fatto che le isole Solomon abbiano ascoltato l’Australia e lasciato cadere l’idea di affidare a ditte cinesi la costruzione di cavi di rete sottomarini; “odia” che la stampa australiana metta in prima pagina i casi di corruzione delle autorità della Papua Nuova Guinea da parte di società cinesi. La Cina non sopporta inoltre che alcuni esponenti politici australiani vogliano salvaguardare il diritto di critica di Stati e organizzazioni regionali rispetto alle scelte muscolari nel Mar Cinese meridionale, considerato da Pechino come il cortile di casa; non sopporta che la compagnia di bandiera australiana Qantas chiami Taiwan col suo nome e non invece “Taiwan, Cina”, e così via.

Ci sono episodi ancora più inquietanti che testimoniano il tentativo cinese di esercitare la propria influenza ben oltre i consueti corridoi delle cancellerie. Nel 2008, quando la torcia olimpica stava attraversando l’Australia prima di arrivare nel Paese ospite dell’edizione, la Cina, furono annunciate proteste per sensibilizzare il pubblico sulla causa tibetana. Per tutta risposta, l’ambasciata cinese a Canberra fece capire di essere favorevole a contro-manifestazioni per “proteggere” la torcia dai militanti dei diritti umani. Le associazioni studentesche che mantenevano legami con la Cina non se lo fecero ripetere due volte, organizzarono slogan e logistica dei sit-in “patriottici” e fecero circolare messaggi del tipo: “Che tu abbia un passaporto cinese o tu sia un cittadino australiano poco importa; crediamo che i figli e le figlie della Cina siano un tutt’uno, animati da fedeltà e amore alla madrepatria!”. Nelle università australiane, dove quasi 200.000 figli della borghesia cinese perfezionano i loro studi, si registrano addirittura i primi casi di minacce studentesche nei confronti di docenti che osano citare Taiwan come un Paese indipendente, o episodi in cui gli atenei hanno offerto pubbliche scuse a nome di alcuni loro docenti colpevoli di aver mostrato mappe dell’India non coincidenti con la versione ufficiale della storia cinese. Aneddoti isolati, minimizza qualcuno. Decisamente sistematiche, invece, le inchieste giornalistiche sui fondi pubblici australiani per la ricerca scientifica che – tramite gli atenei locali – finiscono più o meno consapevolmente per puntellare il tentativo dell’Esercito di liberazione del Popolo di raggiungere e superare il livello tecnologico dell’esercito americano. Come allarmanti sono i primi casi di ingerenze che lambiscono la politica parlamentare australiana. Risalgono alla fine dello scorso anno le clamorose dimissioni del senatore laburista Sam Dastyari, che ha ammesso di aver ricevuto pagamenti da società e personalità cinesi, dopo che aveva difeso in pubblico l’espansionismo di Pechino nel Mar Cinese meridionale con argomentazioni esattamente sovrapponibili a quelle del governo dell’ex Impero celeste e dopo aver cercato di convincere dei colleghi parlamentari a non incontrare un dissidente cinese. Agli onori della cronaca è salito anche il caso di un imprenditore cinese che ha offerto 400.000 dollari al Partito Laburista in cambio di posizioni più accomodanti in politica estera. Non solo: i Servizi segreti australiani hanno fatto sapere sia ai Liberali sia ai Laburisti che due dei loro principali donatori privati hanno legami col Partito Comunista cinese. Il tutto mentre, sul terreno, si registrano le prime attività del Fronte Unito del Dipartimento del Lavoro, associazione governativa cinese che finora si era limitata a rappresentare e difendere gli interessi del Partito nella contesa Taiwan. Insomma, come ha scritto John Fitzgerald, studioso di relazioni internazionali nell’Asia Pacifica, “per essere un Partito che non ha alcun interesse a introdurre elezioni democratiche nel proprio Paese, il Partito Comunista cinese sta dimostrando una notevole curiosità per i processi democratici altrui”, in particolar modo per quelli australiani.

In definitiva, questi sono casi esemplificativi e allo stesso tempo indicativi di cosa può accadere, in questo inizio di XXI secolo, lì dove corre una linea di faglia che separa un regime autoritario espansivo come quello cinese da una democrazia liberale come quella australiana, pur in pace fra loro. Ancora più degno di nota, però, come si legge su Foreign Affairs, è il modo in cui Canberra si sta adoperando adesso per contenere le minacce che arrivano da Pechino e contemporaneamente per fare fronte alle pressioni degli industriali locali che temono rappresaglie economiche dal Dragone. Una strategia “difensiva” che entro poche ore dovrebbe essere coronata in Parlamento dalla più radicale riforma delle leggi sulla sicurezza nazionale cui si sia assistito da decenni a questa parte.

La reazione legislativa di Canberra

Il nuovo pacchetto di norme per limitare le interferenze straniere nell’agone democratico domestico è costituito dall’Espionage and Foreign Interference Bill ­­e dal Foreign Influence Transparency BillIl percorso che ha portato alla loro stesura è particolarmente indicativo.

Innanzitutto il Governo australiano, in tutti questi mesi, ha fatto molta attenzione affinché questo processo non fosse percepito come una campagna politica indirizzata contro la popolazione cinese o a maggior ragione contro i cinesi residenti in Australia; lo ha fatto introducendo una bozza di legislazione che non cita mai esplicitamente la Cina ma è adatta a respingere le pressioni da dovunque esse provengano. Nel confronto diplomatico con Pechino, poi, ha sempre mantenuto toni fermi e decisi, mai provocatori. Allo stesso tempo, nell’agorà pubblica del Paese, sono state lasciate emergere le voci di rappresentanti della comunità sino-australiana che rifiutano di vedersi schiacciati sulle posizioni delle autorità di Pechino, rivendicando autonomia e libertà di pensiero, oltre che un comprensibile attaccamento alla democrazia australiana. Gli apparati di sicurezza del Paese, intanto, hanno condotto lunghe indagini e approfondite analisi, le hanno condivise con il Parlamento e con l’esecutivo. Il legislatore ha lavorato per mesi, recependo – in sede di commissione parlamentare – le critiche dell’opposizione laburista e le obiezioni della società civile come quelle mosse dalle Università nazionali, e in queste ore si vedono i risultati di tutto ciò. Il Parlamento, infatti, sta per approvare le norme con un robusto sostegno bipartisan di Liberali e Laburisti.

Il fulcro delle nuove regole è la creazione di un’inedita fattispecie di reato, quella dell’interferenza straniera, e il parallelo miglioramento della definizione di reati esistenti per adeguarli alle ultime evoluzioni dell’attività spionistica. Sono introdotte per la prima volta, per esempio, sanzioni penali per il furto di segreti commerciali. E’ inoltre vietato il finanziamento di partiti politici dall’estero. Sarà poi istituito un “registro” di chi intende esercitare la propria influenza politica o svolgere qualsiasi attività di lobbying: per garantire trasparenza a favore dei cittadini, saranno obbligati a registrarsi governi stranieri, entità collegate agli stessi governi, organizzazioni politiche non australiane o persone che lavorano alle dipendenze di Stati esteri. Sullo sfondo, saranno ulteriormente rafforzati i poteri investigativi delle forze dell’ordine.

In questo clima d’intesa nazionale, non sono comunque mancate le critiche, specialmente da parte di alcune Ong e di alcuni giornalisti secondo i quali la libertà di espressione e d’informazione correrebbe dei rischi a causa di un eccessivo irrigidimento delle norme in nome della ragion di Stato. Governo e Parlamento rivendicano però di essere già andati incontro a tali preoccupazioni, avendo accolto numerosi emendamenti legislativi. Il premier Turnbull insiste sullo spirito complessivo di questa operazione: “Non consentiremo a Stati stranieri di utilizzare le nostre libertà per erodere la libertà, di ricorrere alla nostra democrazia aperta per sovvertire la democrazia, di applicare le nostre leggi per minare lo Stato di diritto”.

Così, mentre in Europa – e in Italia in particolare – il chiacchiericcio sulle presunte ingerenze straniere nella nostra vita democratica si manifesta soprattutto a ridosso di qualche consultazione elettorale e poi si dissolve subito dopo sulla base di convenienze contingenti e di parte, l’isola-continente degli antipodi ha risposto da par suo a pressioni esterne senza precedenti, dimostrando che tutela della sovranità, difesa dell’interesse nazionale e promozione dei valori democratici non sono in conflitto fra loro. Anzi. (Public Policy) 

@marcovaleriolp