di Giovanni Orsina*
ROMA (Public Policy) – I concorsi pubblici, dopo una fase di stallo durata anni, sono ripresi in modo massiccio nel corso del 2021, sospinti dal necessario turnover nell’amministrazione pubblica e dall’esigenza di gestire le ingenti risorse che arriveranno all’Italia dal Piano nazionale di ripresa e resilienza.
Nello svolgimento delle prove e nelle modalità concorsuali sono stati introdotti alcuni cambiamenti rilevanti, a causa della pandemia, della volontà del Governo di valorizzare il capitale umano nel settore pubblico, della necessità di aumentare la capacità amministrativa del Paese così da portare a termine i progetti del Pnrr. Tra queste novità, molte delle quali introdotte dal decreto legge n. 44 del 2021, si segnalano le modalità semplificate di svolgimento dei concorsi, tra le quali l’utilizzo di strumenti informatici e digitali; una fase di valutazione dei titoli legalmente riconosciuti; la possibilità che i titoli e l’esperienza professionale concorrano alla formazione del punteggio finale (in misura non superiore a un terzo); la possibilità per le amministrazioni di prevedere l’utilizzo di sedi decentrate. Prove digitali, insomma, selezioni più rapide e trasparenti, un limite al “gigantismo”, nonché più punti per i titoli di studio.
Eppure, almeno su un versante i concorsi pubblici sono rimasti fermi al passato: quello della lingua inglese. Nella maggior parte dei casi poco è cambiato rispetto ai tempi dei nostri nonni e bisnonni, quando la conoscenza delle lingue era un di più scarsamente rilevante e verificato assai superficialmente. Neppure con le innovazioni introdotte di recente. Solo nel 2017 il legislatore ha deciso di modificare il decreto legislativo n. 165 del 2001, stabilendo che i bandi di concorso per l’accesso alle pubbliche amministrazioni debbano prevedere non più soltanto l’accertamento delle competenze informatiche ma anche quello della conoscenza della lingua inglese, che diviene pertanto obbligatoria (insieme, ove opportuno in relazione al profilo professionale richiesto, ad altre lingue straniere). Come detto, però, molto spesso la verifica delle competenze linguistiche viene trattata come mera formalità e non come un tassello centrale della procedura. L’articolo 3 del recente decreto-legge n. 36 del 2022 (il c.d. dl Pnrr2), attualmente in corso di conversione presso le Camere, interviene sul decreto legislativo del 2001 in tema di procedimento per l’assunzione del personale non dirigenziale. La disposizione prevede, in particolare, l’espletamento di almeno una prova scritta, anche a contenuto teorico-pratico, e di una prova orale comprendente l’accertamento della conoscenza di almeno una lingua straniera. Nulla di particolarmente nuovo e, probabilmente, qualcosa di ancora insufficiente. Per certi versi anzi un passo indietro: rispetto alla disciplina vigente nel d. lgs. n. 165 del 2001, che crea un’asimmetria a nostro avviso giusta tra la lingua inglese e le altre, il decreto legge Pnrr 2 le considera alla pari.
Sia chiaro: rifuggiamo da qualsiasi fondamentalismo in materia e restiamo molto affezionati alla lingua italiana, che vorremmo anzi vedere utilizzata più correttamente e meglio sfruttata in tutta la sua notevole ricchezza, nella Pubblica amministrazione e al di fuori di essa. Il punto non è di principio, tuttavia, ma eminentemente pratico: molto semplicemente, chi lavora in un apparato pubblico che voglia interagire al meglio con la complessità della realtà contemporanea deve saper maneggiare l’inglese. Si pensi, per non prendere che un esempio, al Next Generation Eu, e in particolare agli Operational Arrangements (tradotti come “accordi operativi”) relativi al Pnrr dell’Italia. Si tratta di atti formali con i quali sono stabiliti i meccanismi di verifica periodica relativi al conseguimento di tutti i traguardi e gli obiettivi (Milestone e Target) necessari per il riconoscimento delle rate di rimborso semestrali in favore dell’Italia. È un documento centrale per l’attuazione del Piano, sul quale l’amministrazione pubblica deve modellare parte del suo lavoro. Ed è esclusivamente in lingua inglese.
Più in generale, l’amministrazione italiana avrà sempre maggior bisogno di persone che sappiano lavorare disinvoltamente in lingua inglese, anche per via della progressiva europeizzazione del nostro apparato pubblico, soprattutto su temi transnazionali quali l’energia e il digitale. Alcune delle difficoltà di coordinamento fra l’amministrazione italiana, quella dell’Unione europea e quelle degli altri Stati derivano anche dagli ostacoli linguistici. Periodi di formazione obbligata per i dirigenti italiani presso gli organi europei o programmi di scambio che consentano di apprendere i limiti e i benefici delle rispettive amministrazioni possono aiutare, naturalmente. Ma assumere nella Pa persone che già conoscano l’inglese resta, com’è evidente, la soluzione principale e propedeutica a tutte le altre.
Il dibattito sui corsi universitari in inglese sembra ormai sopito. La sentenza n. 42 del 2017 della Corte costituzionale ha sostenuto come sia ragionevole che, in considerazione delle peculiarità e delle specificità dei singoli insegnamenti, le università possano, nell’ambito della propria autonomia, scegliere di attivarli anche esclusivamente in lingua straniera, purché gli atenei garantiscano una complessiva offerta formativa che sia rispettosa del primato della lingua italiana, così come del principio d’eguaglianza, del diritto all’istruzione e della libertà d’insegnamento. Entro questi limiti, tuttavia, l’inglese è ormai lingua di insegnamento diffusa nelle università, e molte di esse prevedono interi corsi di laurea e master esclusivamente in inglese. Si tratta di corsi che hanno un certo successo: nel 2019, il numero dei corsi la cui didattica è interamente in lingua inglese è arrivato a quota 440 in 55 atenei (rispetto ai 351 del 2018/19 e ai 339 del 2017/18) . La Luiss in generale, e la Luiss School of Government in particolare, hanno dedicato energie importanti alla costruzione di corsi di studio in inglese e hanno intrapreso questa via da un più di un decennio, ormai.
Non si vede, pertanto, come non debba esser favorita la conoscenza della lingua inglese anche per l’accesso nella Pubblica amministrazione, laddove, per altro, per gli impieghi nel settore privato è requisito indispensabile e spesso dato per scontato. Certo è che, laddove si dovessero aumentare le qualifiche richieste, sarebbe allo stesso tempo necessario anche rendere più attrattive le carriere all’interno della Pa, a partire dalle retribuzioni. Non per caso, alcuni concorsi per il Pnrr, di recente, non hanno attirato candidature di valore come si sperava e ci si aspettava. (Public Policy)
*Public Policy ospita l’ultimo Policy Brief del direttore della Luiss School of Government