ROMA (Public Policy) – di Enrico Cisnetto – Riconoscere di avere un problema rappresenta l’inizio della soluzione, ma non il suo superamento. Così, se è vero che il coro di condanna verso la sciagurata Riforma del Titolo V della Costituzione è oggi polifonico e unanime (mentre negli anni scorsi insieme al mio erano pochi altri i giudizi negativi sul federalismo), è altrettanto vero che non c’è nessuna concreta “controriforma” in grado di mettere fine ai disastri e invertire davvero la rotta.
Per quanto Matteo Renzi ripeta che “il federalismo è stato un imbroglio”, il testo presentato dal suo governo è pieno di lacune e incongruenze. Mentre da una parte è prevista la riduzione delle materie di competenza delle regioni ordinarie e si ipotizza la possibilità sussidiaria dello Stato di poter sempre intervenire “quando lo richieda la tutela dell’unità giuridica ed economica della Repubblica”, dall’altra vengono espressamente escluse da questa “supremazia” tutte e cinque le Regioni a statuto speciale. Tra l’altro, Valle D’Aosta, Trentino Alto-Adige, Friuli Venezia-Giulia, Sicilia e Sardegna, già oggi sono accusate, non senza motivo, di essere gli enti regionali con meno controlli e più capacità di spesa.
E non è un caso che ogni volta che qualche Comune indice un referendum per spostarsi da una Regione all’altra, sia sempre per travalicare il confine da un territorio a statuto “ordinario” ad uno a statuto speciale. Se dovesse passare il testo così come è adesso, insomma, ci troveremmo non ad eliminare, come sarebbe logico, ma addirittura ad allargare ulteriormente la forbice tra i poteri e le autonomie di questi 5 enti regionali “privilegiati” e gli altri 15. Il testo di riforma del governo compie poi un altro grave errore, perché assegna allo Stato centrale 45 gruppi di materie su cui legiferare, lasciando alle Regioni tutto il “residuale”: è evidente che con questa impostazione ogni materia nuova o non espressamente indicata finirebbe sotto la competenza degli enti territoriali, originando così – involontariamente – un’ulteriore estensione di poteri che si volevano in principio limitare.
La verità è che il problema e i danni provocati dall’illusione federalista sono troppo profondi per essere curati con l’aspirina di qualche modifica e ritocco alla suddivisione delle competenze. Le Regioni hanno raddoppiato il loro costo tra il 1990 e il 2010, quasi esclusivamente con l’indebitamento finanziario, spendendo circa 1 miliardo all’anno per mantenere Giunte e Consigli regionali. Ma poi ci sono ancora, e non si cancellano con un tweet, 110 province, 8100 Comuni, decine di enti di secondo e terzo livello. L’unica riforma efficace dovrebbe provvedere ad una profonda riorganizzazione dei vari livelli di governo, affinché si possano abbattere i sempre crescenti casi di contenzioso tra centro e periferia che bloccano il Paese, sburocratizzando e snellendo corpi e procedure amministrative.
Come fare? Accorpare i Comuni sotto i 5mila abitanti, che rappresentano solo 17% della popolazione pur essendo il 70% del totale di 8.100 soggetti (anche se adesso, pur senza esultare, ci accontenteremmo dell’unione di quelli sotto i 1000), abolire veramente e definitivamente le province, eliminare tutti gli enti di secondo e terzo grado di dubbia utilità e di certo corporativismo. E riprendere quel vecchio studio della Fondazione Agnelli per la creazione di 6-7 macroregioni. È già tutto scritto, ma non servono post su Facebook né è sufficiente riconoscere l’esistenza dei problemi. Serve la volontà di risolverli.(Public Policy)
@ecisnetto