ROMA (Public Policy) – di Enrico Cisnetto – Come ogni regno ha una pietra d’origine così ogni industria necessita di infrastrutture. Purtroppo gli edifici, o i templi se preferite, dell’industria calcio – perché tale è un’attività che in Italia, indotto compreso, muove qualcosa come l’1% del Pil (il 3% l’intero comparto sport) – sono vecchi e inadeguati tanto che, mancando le dovute fondamenta, tutto il sistema viene giù. Con i magri risultati di club e nazionale che segnalano un malessere ben più prolungato e profondo.
Con buona pace degli ultimi romantici, quella del calcio è tra le prime cinque industrie del Paese: lasciarla marcire su strutture centenarie (l’Olimpico di Roma è del 1936, San Siro del ’26, Marassi addirittura del 1911), pericolose e inefficienti, ha sancito la fine del regno italiano, sia sportivo che economico.
I tempi dei presidenti “spendi & spandi” sono finiti, le società sono sempre più indebitate, e negli ultimi tempi c’è stato un vorticoso ricambio di vertici e proprietà – non tutte migliorative, ahimè – e soprattutto in Serie A è partita una campagna di ristrutturazione dei debiti in capo a molti club. Il Milan ha un indebitamento finanziario netto di 256 milioni, il Genoa debiti per 235 e crediti per 108, il Parma (che subirà una penalizzazione in classifica per il mancato pagamento di ingaggi e ritenute) è in rosso di 89 milioni.
Situazioni difficilmente sostenibili, a differenza di quella della Juventus che, pur avendo un indebitamento finanziario di 217 milioni ha un bilancio assolutamente solido, grazie ai ricavi di uno stadio di proprietà aperto sette giorni la settimana. È proprio la certezza dei ricavi, infatti, a rendere i debiti sostenibili, a garantire i crediti e a permettere alle società di contrarre prestiti internazionali, in un momento di scarsa liquidità. È quello che sta cercando di fare la nuova dirigenza interista con Thohir, per reggere debiti di 230 milioni. Ed è quello che ha fatto la Roma “americana” di James Pallotta per un indebitamento di 111 milioni.
Insomma, il modello italiano anni ’90 è da tempo sepolto: serve innovare, possibilmente sul modello inglese, cominciando dagli stadi di proprietà. Prendete il progetto per quello della Roma: c’è la disponibilità dei nuovi vertici societari, una zona identificata e idonea, investitori disposti a scommettere, un progetto valido, che tra l’altro potrebbe riqualificare un intero quadrante della Capitale, che un gruppo come Parnasi è pronto a realizzare.
Ma ecco che arrivano le tipiche resistenze italiane: il Coni, che non vuole perdere l’uso dell’Olimpico nonostante la struttura sia pesantemente obsoleta; alcune fazioni del Pd romano, timorose di perdere l’alleanza con imprenditori concorrenti di chi costruirà lo stadio; i consueti ambientalisti estremisti. Tutti soggetti che, nel gravoso e paludato stallo attuale, campano benissimo. Così, mentre noi perdiamo partite sportive ed economiche, diverse stagioni e forse anche un paio di generazioni, loro sono lì ad esultare su strutture in macerie. Rottamiamoli. (Public Policy)
@ecisnetto