ROMA (Public Policy) – di Enrico Cisnetto – Chissà che non sia (finalmente) finita la caccia alle streghe verso le banche. La Camera inizia l’esame del decreto legge sui fallimenti, una serie di misure introdotte dal governo per accelerare il recupero dei crediti, per non penalizzare eccessivamente i nostri istituti e, indirettamente, far ripartire il credito.
In particolare, si potranno dedurre a fini fiscali in un solo anno invece che in cinque i pesanti costi derivanti dai prestiti che non si riescono a riscuotere, le cosiddette “sofferenze”, come già avviene nel resto d’Europa. Smaltire queste perdite non rappresenta certo un “favore alle banche”, ma un primo rimedio ad una disfunzionalità sistemica.
Le sofferenze bancarie, infatti, ammontano a 200 miliardi, i crediti deteriorati a 350, e sono in media il doppio dell’eurozona. Si può discutere a lungo se in passato il credito sia stato erogato in maniera troppo lasca, se ciò abbia favorito più gli imprenditori o i banchieri, su come spartire le responsabilità, su chi abbia commesso più abusi che comunque non hanno modificato il corso degli eventi o se era giusto sostenere le aziende in altro modo. Però, prima di qualunque analisi su un fenomeno storico e complesso, la realtà imponeva un rapido intervento per il bene di imprese e famiglie.
Ottimo, quindi, che il governo, sostenuto dall’Abi e da Bankitalia, abbia finalmente deciso di introdurre regole per sistemare una situazione precaria con potenziali ripercussioni esiziali su tutta la nostra economia. Inoltre, le misure prevedono costi minimi per l’erario e, anzi, secondo Padoan potrebbero addirittura generare piccoli benefici per i conti pubblici. In pratica, questi interventi faciliteranno il mercato dei “non performing loans” perché, con regole certe, fondi e operatori specializzati saranno più disposti ad acquistare crediti dubbi e le banche potranno liberarsene con maggiore facilità.
Attenti però, perché il diavolo si cela nei dettagli. Infatti, è pressoché impossibile trovare imprenditori che abbiano debiti verso uno o pochi istituti creditori. Anzi, di solito, ci sono decine di banche esposte per ogni debitore. Il decreto stabilisce che se i detentori del 75% del credito sono d’accordo, gli altri devono adeguarsi: una previsione che evita che piccoli soggetti (magari con l’1% del credito totale) possano mettere il veto.
Idea giusta. Ma la soglia è troppo alta, e nel concreto rischiano di essere molte, probabilmente la maggioranza, le situazioni che si farebbe fatica a sbloccare. L’ideale, allora, sarebbe che se il detentore della maggioranza relativa dei crediti decide un’azione, gli altri si debbano adeguare.
Ma, visto che la perfezione è nemica del fare, sarebbe in ogni caso sufficiente che in sede di conversione il Parlamento fissasse la quota del 51%, la maggioranza assoluta. Altrimenti c’è il rischio che tutto resti solo sulla carta. Lasciando le banche dei Belzebù e le imprese senza denaro. (Public Policy)
@ecisnetto