LUISS Open// Italiani poca gente: il paese ai tempi del malessere demografico

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Public Policy ospita un estratto, pubblicato su LUISS Openda “Italiani poca gente” (di Antonio Golini, con Marco Valerio Lo Prete) dal 7 febbraio in libreria per LUISS University Press

ROMA (Public Policy) – “È accaduto in Italia per la prima volta. Correva l’anno 1995”. Inizia con queste parole il recente saggio intitolato “Lo storico capovolgimento delle popolazioni”, firmato da Joseph Chamie, uno dei più illustri demografi dei nostri giorni e già direttore della Divisione per la Popolazione delle Nazioni Unite. Lo “storico capovolgimento” di cui Chamie rintraccia le origini nel nostro Paese è il “punto di svolta demografico in corrispondenza del quale i ragazzi di una certa popolazione diventano meno numerosi degli anziani”. Tale svolta nella storia della società umana si è verificata perla prima volta in Italia, alla metà degli anni 90 del secolo scorso. Cinque anni dopo, toccò ad altri sei Paesi – Bulgaria, Germania, Grecia, Giappone, Portogallo e Spagna –, poi ad altri ventitré Paesi fino al 2015.

Per avere un’idea della radicalità del mutamento in corso, si osservi che ancora 50 anni fa la popolazione mondiale contava 3,3 miliardi di persone, con una proporzione di oltre 7 ragazzi al di sotto dei 15 anni di età per ogni persona con più di 65 anni di età. Oggi, su 7,5 miliardi di persone che popolano il pianeta, la proporzione si è dimezzata: ci sono 3 ragazzi per ogni anziano. In Italia la medesima proporzione si è prima capovolta e poi ingigantita, al punto che oggi ci sono 0,6 ragazzi per ogni anziano (in altri termini, per ogni 3 ragazzi ci sono 5 anziani).

Che quello italiano potesse essere uno snodo chiave per capire gli andamenti demografici del pianeta lo avevano intuito all’inizio degli anni Ottanta anche gli studiosi di una delle più prestigiose riviste scientifiche del settore, la francese “Population et Societés”, che investigavano sulla natalità. “Que se passe-t-il en Italie?” (“Cosa succede in Italia?”) è iltitolo di un saggio pubblicato nel 1983, nel quale – dati alla mano – si esortava il lettore ad abbandonare lo stereotipo dell’Italia “sorella latina” della Francia, dalle tradizioni familiari vive e dalla prolificità accentuata. Il calo delle nascite, osservavano gli autori, stava infatti diventando rapidissimo: “Ha portato alcune regioni del Nord-ovest ai livelli di natalità più bassi d’Europa. Nel 1979, quando il tasso di fecondità italiano era di 1,74 figli per donna, lo stesso indicatore si fermava a 1,45 in Piemonte, 1,40 in Toscana, 1,28 in Emilia Romagna e 1,17 in Liguria!”. Con tanto di punto esclamativo, fatto più unico che raro negli studi accademici. D’altronde la denatalità italiana era effettivamente sorprendente. Alla metà degli anni 90 toccò quello che all’epoca fu il record minimo mondiale: 1,19 figli per donna. Iniziava allora una tendenza che ha portato di recente a un altro record negativo della nostra storia: il più basso numero di nascite mai registrato, con 458mila nati nel 2017 (furono 576mila nel 2008 e più di 1 milione nel 1964). Nel frattempo altri Paesi ci hanno superato in quanto a bassa natalità: la Corea del Sud nel 2018 è arrivata a 0,96 figli per donna. Ma gli storici in futuro potranno dire di nuovo: “È accaduto in Italia per la prima volta”.

Tra pronunciata denatalità e conseguente rapido invecchiamento, il nostro Paese attraversa oggi – ancora una volta a mo’ di apripista – una delicatissima fase di transizione. Una fase nel corso della quale i singoli individui, la società nel suo complesso e la macchina statale faticano ad adattarsi a squilibri repentini e crescenti della popolazione, a volte fallendo miseramente e pericolosamente. Esempi di tali difficoltà non mancano: l’impatto dell’invecchiamento sull’innovazione e sull’imprenditorialità; il progressivo ridimensionamento della forza lavoro; il rischio di insostenibilità per previdenza e pensioni pubbliche in un Paese già gravato da un indebitamento record; le incognite legate ai flussi migratori in entrata soprattutto dal Sud del mondo e il depauperamento del capitale umano causato dalla nuova emigrazione; i mutamenti sociali e culturali che da tutto ciò discendono; i contraccolpi politici e l’indebolimento geopolitico; l’equilibrio mutevole tra diritti e doveri di ogni individuo. Quelle elencate sono soltanto alcune delle principali sfide che un Paese come il nostro, caratterizzato da scompensi demografici tanto originali quanto gravi, si trova a fronteggiare. A livello globale sta accadendo qualcosa di simile. Come illustrato da Scipione Guarracino nel suo libro “Allarme demografico”, “per tre secoli e più il pendolo delle paure demografiche ha oscillato fra i due poli, il deserto e il formicaio: l’invecchiamento, lo spopolamento e l’estinzione da una parte, le folle di affamati dall’altra. Si direbbe che ora non sappia più da che parte dirigersi, oppure che voglia toccare contemporaneamente entrambe le estremità” . Oggi, e sempre di più nei prossimi anni, la sfida non sarà tanto quella posta dallo spopolamento che il pensatore francese Montesquieu registrava nelle sue “Lettere Persiane” del 1721 e riconduceva tra l’altro al dispotismo dominante in Europa, né quella opposta della crescita eccessiva della popolazione che il biologo americano Paul Ehrlich prevedeva nel suo bestseller “The Population Bomb” del 1968.

La sfida contemporanea – come dimostra il “caso Italia” – è piuttosto quella incarnata dai rapidi squilibri demografici che si manifestano all’interno di singoli Paesi o dagli andamenti opposti ma simultanei che investono aree geografiche diverse. Di conseguenza lo stesso “caso Italia” non può essere compreso fino in fondo se non è collocato all’interno del più vasto e contemporaneo “scontro delle demografie” oggi in corso sul pianeta. (Public Policy)